22 Aprile 2025 | Tempo lettura: 4 minuti

Cosa mi manca di Enrico Berlinguer, oggi più che mai

Un racconto personale, fatto di luce, di parole, di immagini che ancora commuovono, su Enrico Berlinguer. Una riflessione profonda e intima su ciò che resta, su ciò che può tornare e su quel Berlinguer che in qualche modo abita ancora molti di noi.

Autore: Michela Calledda
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Berlinguer, foto dell'Archivio Podda, Cagliari, 1984
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In questo 25 aprile ormai alle porte, che segna anche l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, la memoria dell’antifascismo torna ad abitare con più forza le piazze, le voci e i ricordi. E non per nostalgia, ma per necessità, ci sono figure che in questo tempo sembrano risuonare ancora più chiaramente: una di queste è senza dubbio Enrico Berlinguer.

Sardo di Sassari, comunista, antifascista, Berlinguer è stato uno dei protagonisti tra i più lucidi e presenti del secondo Novecento italiano. Segretario del Partito Comunista dal 1972 al 1984, ha saputo tenere insieme una visione etica e politica della sinistra, parlando di giustizia sociale, di autonomia morale e di democrazia reale, anche nei momenti più complessi della storia repubblicana.

A distanza di oltre quarant’anni dalla sua morte, la sua figura continua a interrogare il presente e lo fa oggi anche attraverso una mostra allestita nella Passeggiata Coperta del Bastione di Saint Remy, a Cagliari: un percorso tra immagini, documenti e memorie che restituisce il legame profondo tra Berlinguer e il popolo e che riaccende, nel cuore della città, il bisogno di una politica che sappia essere ancora visione, rigore, umanità. A partire da questa mostra, le parole a seguire costituiscono un testo intenso, che parte dal personale: un attraversamento della memoria che è anche riflessione sul presente, su ciò che resta e su ciò che possiamo ancora ritrovare.

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Enrico Berlinguer © Foto di Giovanna Borgese

Berlinguer, una storia collettiva

Ci sono luoghi che all’improvviso sembrano diventare tempo. Come a Cagliari in questi giorni, dove una mostra – piena di luce, di storia e di ricordi – racconta Enrico Berlinguer. Anche se Enrico Berlinguer non si racconta: si sente, si riconosce. Si piange e si rimpiange. Ancora, 41 anni dopo. Entrare nella Passeggiata Coperta del Bastione di Saint Remy è come attraversare una storia collettiva che ha toccato ogni casa, ogni sezione, ogni piazza di questo Paese. Una storia che non si è solo vissuta: si è respirata. E chi oggi sfiora le foto, i manifesti, i documenti – chi legge, chi guarda, chi ascolta di nuovo quella voce così limpida, così sarda, così attuale – sta tornando a casa.

Una casa che però non c’è più, nonostante i goffi tentativi di appropriarsi di quella storia e di quella memoria, ma di cui ancora conosciamo ogni angolo. Dentro questo viaggio nel tempo c’è il Berlinguer che ognuno di noi si porta dentro: quello che sorride, mite ed elegante, il compagno, il segretario, il simbolo, il punto di riferimento. C’è l’uomo che sapeva parlare agli operai e agli studenti, ai comunisti ortodossi e ai ribelli senza tessera, ai vecchi, ai giovani. Ai bambini.

Un uomo che non concedeva nulla alla superficialità, che parlava di giustizia sociale senza pudore, di pace e disarmo con fermezza

“È mio dovere, come lo è di tutti gli adulti, aiutarvi a conquistare la cultura per conoscere il mondo e contribuire a trasformarlo per renderlo più giusto“. Scriveva così, con una chiarezza d’animo disarmante, in una lettera dattiloscritta, datata Roma, 16 aprile 1971, indirizzata agli alunni di una quinta elementare di Carosino, in provincia di Taranto.

Non tutto è perduto

Ecco cos’era, Enrico Berlinguer: un uomo che non concedeva nulla alla superficialità, che parlava di giustizia sociale senza pudore, di pace e disarmo con fermezza. Era il pensiero che tutto si tiene, che la questione morale è anche una questione di pane e che la giustizia non è un’utopia, ma una responsabilità.

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Enrico Berlinguer alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia, 1983, Foto di Luigi Ghirri, © Eredi Luigi Ghirri

Al Bastione, in questi giorni, c’è quella mancanza struggente che avvertiamo tutti, anche chi non c’era. Un’assenza piena di parole che nessun altro ha più saputo dire, la nostalgia di una visione del mondo che era insieme fermezza e tenerezza. Una nostalgia triste, ma non rassegnata. Una voglia ostinata di trovare, ancora, una politica nuova che gli somigli almeno un po’. Parlare di Enrico Berlinguer, oggi, in tempi così disorientati e disillusi, significa anche questo: sentire che non tutto è perduto. Che le idee, quando sono forti, restano. Che i sogni, quando sono giusti, ritornano. Che possiamo essere orfani, ma non per questo senza direzione.

Enrico Berlinguer, oggi come ieri, non ci chiede né di ricordarlo né di santificarlo: ci chiede di prenderci cura di quello che ha lasciato. Perché è ancora qui, nello sguardo dei compagni, in una folla di bandiere rosse, in un 25 aprile da difendere ogni giorno, in un Primo Maggio disegnato a mano. È in chi è cresciuto a pane e Unità, ma anche in chi – senza casa e senza partito – sogna ancora un mondo più giusto.

Questo articolo fa parte della rubrica “Tutto il mondo è paese” a cura di Michela Calledda della Libreria La Giraffa di Siliqua