I veleni di Spiritu Santu: la discarica di Olbia al centro dell’inchiesta della Procura
Dopo anni di ombre, silenzi, indagini archiviate ed esposti, a Olbia la gestione del complesso di discariche di Spiritu Santu finisce a processo. Ce ne parla Angela Deiana Galiberti in questa inchiesta Indip.

In breve
L’ex discarica comunale di Olbia, oggi parte dell’impianto di Spiritu Santu gestito dal Cipnes, è al centro di un’inchiesta per grave inquinamento ambientale.
- Nella falda sottostante sono state trovate alte concentrazioni di sostanze tossiche, tra cui arsenico, cromo esavalente e idrocarburi.
- La Regione aveva stanziato 4,4 milioni di euro per mettere in sicurezza l’area, ma secondo la Procura le opere non sono mai state realizzate.
- Diversi dirigenti e tecnici del Cipnes sono accusati di inquinamento, frode e falso ideologico.
- A far partire le indagini sono stati i cittadini di Murta Maria e Porto San Paolo, esasperati da anni di miasmi, proteste e crollo del valore immobiliare.
- L’inchiesta solleva interrogativi non solo ambientali, ma anche sulla gestione delle risorse pubbliche e sulla trasparenza degli enti coinvolti.
Quando si parla di discariche, il discorso si fa sempre serio. Intanto perché simili impianti sono spesso associati a gravi forme d’inquinamento ambientale. Inoltre i gestori – in molti casi enti pubblici – non sempre mostrano la dovuta attenzione verso le ferree disposizioni di legge su smaltimento e trattamento dei rifiuti. Per la Procura di Tempio questo quadro ben si attaglia anche all’ex discarica comunale di Olbia, dal 2016 nell’orbita dal Consorzio industriale provinciale del nord-est (Cipnes), ente pubblico associato al più noto impianto di raccolta dei rifiuti di Spiritu Santu, che nel tempo ha finito per inglobare il sito incriminato, finito anch’esso al centro dell’inchiesta condotta dal pm Mauro Lavra.
Gli inquirenti – e prima ancora la società incaricata di caratterizzare l’area, Arcadis –, hanno infatti rilevato nella falda sottostante la discarica eccessi per numerose sostanze, tra cui l’alluminio e i fluoruri, presenti in quantità superiori quasi quattro volte ai limiti di legge. Superamenti anche per antimonio e i pericolosi arsenico e cromo esavalente, per tacere degli altrettanto temibili idrocarburi, incluso il benzene, stando alle indagini condotte da Arcadis. Si tratta di dati preoccupanti su cui la procura ha una tesi chiara: il percolato proveniente dai cumuli d’immondizia si sarebbe infiltrato nel sottosuolo, contaminando l’acquifero.
Ecco perché lo scorso gennaio l’ingegnere Giovanni Maurelli – dirigente del Cipnes e responsabile del Settore Igiene Ambientale – è finito a processo con l’accusa di inquinamento ambientale. Sul banco degli imputati anche il geologo Sandro Zizi, referente dell’Ufficio tecnico del consorzio, Salvatore Azzena – geometra, responsabile operativo dell’impianto di Spiritu Santu – e Amedeo Mandras – rappresentante legale della Geo Recuperi Srls di Olbia –, accusati a vario titolo di frode alle forniture pubbliche, falso ideologico e trasporto di rifiuti senza autorizzazione. La prima udienza è prevista per il 23 maggio presso il Tribunale di Tempio.

Raggiunto da Indip, l’avvocato Marzio Altana, che difende i tre dipendenti del Cipnes, si dice fiducioso: «Durante il dibattimento dimostreremo di non aver commesso alcun tipo di violazione. I miei assistiti hanno già dato ampie spiegazioni e ne forniranno altre, anche con documenti, in modo da contribuire all’accertamento della verità». Avviata sulla base di una serie di esposti presentati dai cittadini di Murta Maria, frazione di Olbia, e Porto San Paolo, l’inchiesta condotta dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico (Noe) di Sassari a partire dal 2020 collega dunque due piani: quello ambientale e l’altro associato alla gestione della cosa pubblica. Nel complesso emerge un quadro fosco, ma andiamo con ordine.
Le ragioni dell’inquinamento
All’interno del quadro ricostruito dai Noe, la contaminazione ambientale occupa sicuramente una posizione centrale. Ma, come vedremo, per gli inquirenti è anche una questione di risorse non spese. Va subito detto che la vecchia discarica comunale non è nuova a fenomeni di inquinamento, di cui si ha traccia sin dal 2003. Infatti proprio in quell’anno anno il vecchio sito – operativo dagli anni ’80 fino al 1991 – fu inquadrato come potenzialmente inquinato e per questo inserito nel Piano regionale di gestione dei rifiuti su input dello stesso Cipnes, che denunciò alla Asl e alla Provincia di Sassari la presenza di «copiose fuoriuscite di percolato dal corpo della discarica ormai dismessa».
Stando ai Noe, rispetto ad allora la novità sta nei sostanziosi fondi ricevuti dal Cipnes per mettere in sicurezza l’ex discarica comunale. Si tratta di una cospicua somma, pari a 4,4 milioni di euro, in prevalenza – 3,6 milioni – assegnati dalla Regione al Cipnes tra il 2016 e il 2017, mentre la restante parte proviene dal Comune di Olbia. Ebbene quei soldi non sarebbero mai stati utilizzati per le opere per cui erano stati stati stanziati.

Non ha dunque visto la luce il il capping [copertura, ndr] definitivo e vale lo stesso per la manutenzione ordinaria delle canalette e della trincea di drenaggio delle acque a monte, semplicemente non pervenuta. Eppure si trattava di opere necessarie affinché le acque piovane non raggiungessero i rifiuti e dunque disperdessero il percolato nelle acque di falda. In tutto ciò, il pm ipotizza un ruolo anche per la discarica consortile e cioè quella di Spirito Santu, dove «sono state azionate le paratie per provocare il deflusso delle acque di prima pioggia senza il preventivo trattamento», annotano i Noe. E concludono: «Sempre per ridurre i costi di gestione».
Per la procura i soldi sono finiti altrove
Ma perché non realizzare opere indispensabili e per di più finanziate? Per la procura la risposta è semplice: risparmiare denaro che poi sarebbe stato usato dal Cipnes per attività estranee al settore Ambiente. In parole povere, i fondi regionali e non solo destinati alla messa in sicurezza del sito sarebbero stati usati per altre attività e il Cipnes di attività ne ha tante: oltre a quelle canoniche non dobbiamo dimenticare convegni, fiere, attività di promozione, persino un ristorante in Costa Smeralda.
La guerra dei cittadini alla discarica non si è mai fermata
Non è finita qui, perché la parte dell’indagine che tocca la discarica consortile riguarda in particolare la nuova sezione (lotto 1). Sostanzialmente l’argine divisorio tra la nuova e la vecchia discarica del consorzio sarebbe stato realizzato con materiale difforme rispetto a quello indicato nell’appalto. Per difforme si intende con un indice di permeabilità sensibilmente maggiore. In pratica avrebbero portato del materiale, per così dire, poroso e permeabile ai liquidi come l’acqua o il percolato. Anche in questo caso, secondo il Noe, ci sarebbe stato un risparmio sui costi.
Il valore degli immobili crolla
Facciamo un passo indietro al momento in cui è scattata la scintilla che ha portato al processo. A chiedere in modo continuo controlli sul sito sono stati i residenti di Murta Maria e Porto San Paolo, armati esclusivamente della propria voce e della penna. L’esistenza di un possibile inquinamento era noto agli abitanti delle due località già dai primi anni 2000, aspetto di cui si trova traccia nei documenti ufficiali e in seguito nel piano di caratterizzazione del 2014. Le prime proteste risalgono proprio a quegli anni, ma è intorno al 2010 che scatta il braccio di ferro tra la popolazione residente e il Cipnes.
La discarica consortile – sorta accanto a quella comunale qualche anno dopo la sua chiusura, avvenuta nel 1991 – avrebbe dovuto infatti chiudere i battenti nel 2012 per via del suo previsto esaurimento. Nonostante le proteste, gli esposti, le indagini, la storia è andata in una direzione assai differente: Spiritu Santu non solo non ha mai chiuso i battenti, ma l’impianto è stato perfino ampliato, ragion per cui la guerra dei cittadini alla discarica non si è mai fermata.

A preoccupare i residenti erano stati soprattutto i miasmi: un odore penetrante e dolciastro che ammorbava e ammorba ancora oggi, seppur in maniera minore, l’intera area. «Quando c’è stata questa presa di coscienza nella frazione, i miasmi erano all’ordine del giorno e raggiungevano anche Tavolara», racconta Alessandro Pais, che in qualità di membro del comitato della frazione di Murta Maria ha seguito la vicenda sin dall’inizio.
«Già 13 anni fa avevamo contezza che non fossero qualcosa di “naturale”. Questo però non è mai stato un disagio solo sensoriale, ma anche economico. Tantissima gente è scappata da Murta Maria perché quell’odore era intollerabile. I turisti, in particolare, si lamentavano tantissimo. La presenza di una discarica ha di fatto depauperato questo territorio e per noi rimane un handicap grosso. Ci sono imprenditori agricoli che hanno fatto investimenti sull’apicoltura, ma le api sono morte». Anche se senza analisi non si possono addossare responsabilità, è chiaro che episodi di questo tipo segnano in modo indelebile la reputazione di un luogo e l’immaginario di chi ci vive e lavora.
Per Pais, la presenza della discarica è la principale motivazione della mancata crescita di Murta Maria anche come località turistica. L’amarezza è tanta. «Adesso i miasmi si sentono molto meno, ma rimane tutto quello che hanno fatto e che vogliono farci. È tutta una questione industriale, noi non abbiamo avuto vantaggi e non ne avremo». Secondo Elio Decandia, agente immobiliare e consigliere di minoranza nel Comune di Porto San Paolo, la perdita di valore degli immobili nelle vicinanze della discarica si aggira intorno al 30%. Non tutta Murta Maria è però off limits. Porto Istana è abbastanza distante dalla discarica e per via dei venti l’odore non si ferma più di tanto. Ma è solo l’eccezione che conferma la regola.
Puoi leggere la versione integrale dell’inchiesta su Indip.
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