Con il progetto Aria le donne detenute si riscattano diventando artigiane
Un progetto nato in carcere che unisce mondi apparentemente lontani: l’oreficeria, la tecnologia della stampa 3D, la sartoria e la forza di chi si trova in una condizione di fragilità.

In breve
Aria, da laboratorio in carcere a impresa sociale in evoluzione.
- Nato nel carcere femminile di Pontedecimo, Aria è diventato un percorso di formazione e reinserimento sociale e lavorativo per donne detenute.
- I laboratori si tengono sia in carcere che all’esterno, con attività di sartoria e stampa 3D.
- L’accesso avviene su richiesta e dopo una selezione all’interno del carcere.
- Tutte le partecipanti ricevono un contributo economico e sono affiancate da artigiani esperti.
- L’obiettivo è creare un’impresa sociale sostenibile.
- Il core del lavoro è l’intreccio tra collaborazione, creatività e responsabilità personale.
- Aria oggi è un’impresa sociale in via di formalizzazione, che promuove la rinascita emotiva delle detenute.
Un laboratorio “diffuso” che si snoda tra dentro e fuori il carcere. Si chiama Aria ed è un’iniziativa definita “di artigianato sociale”, un progetto che proprio in una parte degli spazi del carcere femminile genovese di Pontedecimo prende vita. Al primo piano di Villa Ronco, uno spazio polifunzionale di Sampierdarena, incontro Mariasole Gerini, la direttrice del Centro di Solidarietà della Compagnia delle Opere ligure, un’associazione che sostiene imprenditori, professionisti e organizzazioni nel promuovere un’economia basata sulla responsabilità sociale.
Lei e Lucia Brunelli, entrambe coinvolte con grande passione nel progetto Aria, mi accompagnano nel laboratorio di stampa 3D dove si costruisce la versione grezza dei gioielli in resina. Lì percepisco subito un’energia particolare: quella di un gruppo giovane, motivato, unito da una visione comune che va oltre il lavoro quotidiano. L’ambiente è luminoso, ordinato ma vissuto, con tavoli di lavoro su cui si alternano prototipi, macchinari e un computer sempre acceso.
Ho avuto modo di conoscere i ragazzi che animano questo spazio creativo e Maria Pulinas, la giovane responsabile del Servizio Civile che li affianca con entusiasmo e competenza. Ciò che colpisce è la naturalezza con cui collaborano, si confrontano e condividono idee: un gruppo affiatato e consapevole della direzione in cui sta andando. Ognuno con il proprio ruolo, ma tutti con lo stesso sguardo puntato su un obiettivo comune: far crescere questo laboratorio come luogo di apprendimento, sperimentazione e comunità. Il team col tempo si è arricchito di due nuove figure, due artigiani esperti: una sarta, Giorgia Dal Basso, e un orafo, Alessandro Loffredo che entra in carcere e lavora fianco a fianco con le ragazze.

Raccontateci, come è nato il progetto Aria?
Mariasole e Lucia: Tutto ha avuto inizio circa quindici anni fa, nel carcere femminile di Pontedecimo, dove alcuni volontari avevano da qualche tempo attivato un laboratorio di bigiotteria. Dopo poco ci siamo rese conto che volevamo qualcosa di più. L’obiettivo era chiaro: volevamo trasferire delle competenze trasversali che potessero aiutare le donne detenute a reinserirsi socialmente e lavorativamente una volta fuori.
Decisamente più di un “laboratorio-passatempo”, quindi.
Mariasole e Lucia: Sì, nel tempo si è strutturato, passando a un luogo di costruzione, dove sviluppare competenze e creare un gruppo. Da lì è nata anche l’idea di creare un laboratorio esterno, con in abbinamento anche la sartoria e la stampante 3D, per accompagnare le donne anche dopo la detenzione. L’idea era proprio che diventasse un punto di passaggio, un riferimento al momento dell’uscita.
Lavorare in carcere è un’esperienza straordinaria, che ti permette di conoscere le persone per quello che sono, senza sovrastrutture
Come funziona l’accesso al laboratorio in carcere?
Mariasole e Lucia: Avviene su richiesta. La detenuta fa domanda, poi l’educatore valuta la proposta insieme all’area educativa e alla direzione. Se la persona risulta adeguata arriva a noi. Come team incontriamo le candidate in tre colloqui, durante i quali osserviamo la dinamica di gruppo e le competenze di base. Non è importante essere già capace, ma troviamo debba esserci un equilibrio. Cerchiamo di formare un gruppo che possa funzionare.
Negli anni il progetto ha accolto donne con storie e percorsi molto diversi, alcune sono rimaste in carcere per molto tempo, altre per pochi mesi. Ci sono state anche donne che dopo qualche incontro ci hanno detto “Non fa per me, grazie”, e sono andate via. Ed è giusto così.
Ci sono delle borse lavoro per le partecipanti?
Mariasole e Lucia: Sì, grazie al Centro Di Solidarietà della Compagnia delle Opere tutte le donne che fanno parte del progetto ricevono un contributo economico per il loro lavoro. Non è un contratto, ma è una continuità. Se lavori, vieni pagata. Se non ci sei, no. Per noi è anche un modo per educare alla responsabilità personale.
E come si è evoluto il progetto in questi anni?
Mariasole e Lucia: Nel 2023 si è chiarita la direzione e abbiamo deciso di trasformare il tutto in un’impresa sociale. Di base lo è già, perché il 70% delle persone coinvolte nelle nostre attività è fragile, ma non ci siamo ancora costituiti formalmente.

Alessandro, la tua attività è quella di progettare e realizzare gioielli su misura. Giorgia, tu sei sarta e curi un laboratorio sartoriale che si occupa di abiti da donna, dal cartamodello alla confezione. Dal punto di vista dell’esperienza emotiva cosa vi portate a casa dopo un pomeriggio dedicato ad Aria?
Alessandro Loffredo: Per me è un’esperienza straordinaria, che permette di conoscere le persone per quello che sono, senza sovrastrutture: si creano connessioni più profonde e umane rispetto a quello che accade nella vita di tutti i giorni. Lavorando in carcere ho scoperto che anche un accessorio, pur non essendo essenziale, può avere senso e valore: le ragazze avevano bisogno di lavorare su qualcosa, non solo a livello manuale ma anche creativo. Ora lavoriamo insieme anche sugli aspetti progettuali del gioiello. Ne è nata una sorta di “appendice creativa”, fatta di bozzetti, disegni, suggestioni e un continuo scambio di opinioni con idee che poi vengono rielaborate e realizzate.
Giorgia Dal Basso: Il mio laboratorio vuole essere un punto di riferimento per le detenute che escono dal carcere e spesso si ritrovano sole: uno spazio di transizione per prendere nuovamente contatto con il mondo esterno e sviluppare nuove reti relazionali, nuove opportunità. Un appuntamento fisso alla Maddalena tra persone che mai si sarebbero incontrate, in questa società socialmente stratificata e che in un contesto “neutro” riescono a relazionarsi. Cosa mi porto a casa, quindi? Una grande umanità, tanto affetto e una sincerità relazionale difficile da trovare nei contesti a cui siamo tanto affezionati e che continuiamo a ritenere “normali”.

Economicamente parlando come si sostenta l’attività?
Mariasole e Lucia: Per ora sono la produzione e la vendita degli oggetti, come gli anelli stampati in 3D, a darci linfa. Le vendite avvengono per ora tramite donazioni. Fondamentale per noi è stato il bando della Fondazione Cattolica. È una realtà che si prende a cuore il tuo percorso, ci tiene a conoscere di persona i referenti del progetto per seguirli passo passo. È insieme a loro che abbiamo aperto il laboratorio delle stampanti 3D.
Dove si possono acquistare i gioielli?
Per ora esponiamo i prodotti in spazi come il bookshop del Palazzo Ducale e abbiamo una vetrinetta nel carcere. Partecipiamo poi anche ai mercatini locali, come il Cactus Market. La cosa più bella? Quando qualcuno entra al museo, guarda gli anelli e chiede: “Me ne riuscite a fare uno uguale, ma di questo colore?”. E quel momento a dare un senso a tutto, perché fa sentire le ragazze viste, riconosciute.
E il brand invece in che modo è stato creato?
Mariasole e Lucia: Aria, come brand, è nato due anni fa, è stato scelto proprio dalle detenute: hanno lavorato sia sul nome che sui colori della grafica, tutto. È nato quindi dentro al carcere. Oggi Aria include anche una sartoria in via della Maddalena, aperta alla cittadinanza, che accoglie persone con fragilità, ragazzi e ragazze in difficoltà, pensionate, genitori con figli autistici.
Al di là delle competenze il progetto ha quindi toccato anche la dimensione emotiva delle partecipanti.
Mariasole e Lucia: Sì, all’inizio le ragazze non sapevano nemmeno accostare due colori. Poi col tempo hanno iniziato a dire: “Mi piacerebbe metterli insieme così, abbinarli in questo modo”. È come aver assistito al piacere, al desiderio che tornavano dopo tanto appiattimento. È rieducare al bello.
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