Il Manifesto di Ventotene e le accuse di Meloni: rileggere la storia senza distorcerla
Giorgia Meloni ha parlato del Manifesto di Ventotene, rivolgendo accuse molto forti a questo documento che sembrano semplificare eccessivamente la realtà, estrapolando frasi e passaggi in maniera strumentale. Il nostro Paolo Cignini ha analizzato questi estratti ricostruendo il contesto in cui furono scritti e il senso profondo che li accompagnava.

Durante la replica alla Camera del 19 marzo 2025, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pronunciato un’affermazione molto decisa: «Quella del Manifesto di Ventotene non è la mia Europa». La frase è arrivata dopo la lettura in aula di alcuni passaggi del celebre documento scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel 1941, durante il confino fascista sull’isola di Ventotene. Secondo Meloni, il Manifesto contiene idee antidemocratiche, elitarie e persino totalitarie, distanti da quella che, a suo dire, dovrebbe essere l’Unione Europea dei popoli.
Confesso che mentre ascoltavo l’intervento ho provato un senso di smarrimento. Non tanto per il giudizio in sé – legittimo, in fondo – quanto per il metodo: prendere dei frammenti di storia, decontestualizzarli e usarli per raccontare una verità parziale. È un atteggiamento che abbiamo visto tante volte, su molti temi. E ogni volta è un’occasione persa per confrontarci davvero con la complessità.
Meloni ha parlato di un progetto che prevedrebbe una “rivoluzione socialista”, la limitazione o l’abolizione della proprietà privata e la presa del potere da parte di una “élite rivoluzionaria” attraverso una sorta di dittatura. Una ricostruzione che ha scatenato forti reazioni in Aula e ha alimentato un dibattito che merita di essere approfondito. Al netto dello scontro politico, resta una domanda fondamentale: le accuse mosse da Meloni al Manifesto di Ventotene sono fondate? E, soprattutto, come va letto oggi quel documento?
Il Manifesto di Ventotene, tra utopia e necessità
Il Manifesto per un’Europa libera e unita fu scritto in un’epoca buia. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, esiliati dal regime fascista, immaginarono un’Europa che fosse capace di lasciarsi alle spalle il nazionalismo aggressivo degli Stati sovrani, colpevole – a loro avviso – di aver provocato due guerre mondiali. La loro proposta era radicale: superare gli Stati nazionali e costruire una federazione europea dotata di istituzioni comuni, in grado di garantire pace, libertà e giustizia sociale.

Spinelli e Rossi erano convinti che le forze politiche tradizionali, legate alle logiche degli Stati sovrani, non sarebbero state capaci di realizzare questo cambiamento. Per questo parlano di una “avanguardia rivoluzionaria”, di una minoranza consapevole in grado di guidare la transizione. Concetti che, letti con occhi contemporanei, possono risultare controversi o suscitare sospetti. Ma che, se riportati nel contesto del 1941, si spiegano con la disperata urgenza di immaginare un’alternativa ai regimi totalitari e alla guerra.
Cosa ha detto Meloni e cosa dice davvero il Manifesto
Giorgia Meloni ha citato alcuni passaggi reali del Manifesto di Ventotene, sebbene selezionati e decontestualizzati. Ha ricordato che Spinelli e Rossi parlano di una “rivoluzione socialista”. È vero. Il testo dice: “La rivoluzione europea, per rispondere alle esigenze delle classi lavoratrici, dovrà essere socialista”. Ma il termine “socialista” nel 1941 non era sinonimo di collettivismo sovietico. Per Spinelli e Rossi significava costruire una società che superasse le diseguaglianze estreme, garantendo dignità e diritti ai lavoratori. Una società in cui la democrazia politica si accompagnasse alla giustizia sociale. Non c’era alcun progetto di instaurare una dittatura socialista.
Meloni ha poi citato il passaggio in cui si afferma che la proprietà privata deve essere “abolita, limitata, corretta o estesa a seconda dei casi”. Anche questo è un passaggio autentico, ma la visione che emerge è ben diversa da quella suggerita dalla Premier. Non si propone di abolire tout court la proprietà privata, bensì di affrontare i problemi legati alla concentrazione della ricchezza e all’uso distorto della proprietà come strumento di dominio. È un ragionamento aperto, non dogmatico, che propone di intervenire sulla proprietà privata secondo criteri pragmatici e di giustizia sociale.
Il manifesto di Ventotene è ispirato all’idea che la libertà dei popoli e la pace tra le nazioni fossero obiettivi irrinunciabili
Infine Meloni ha fatto riferimento a quella che ha definito una “dittatura del partito rivoluzionario”. Nel Manifesto di Ventotene si legge ancora: “Nel periodo iniziale della rivoluzione, per far trionfare i nuovi ideali e prevenire la restaurazione dei vecchi regimi, sarà necessaria una salda guida politica, un forte potere rivoluzionario”. Un’espressione che può suonare minacciosa se letta isolatamente. Ma il senso è: Spinelli e Rossi erano consapevoli che dopo la caduta dei fascismi e dei nazismi sarebbe stato necessario impedire il ritorno dei vecchi poteri e consolidare la nuova democrazia federale. Non invocavano una dittatura permanente, ma una fase di transizione per costruire istituzioni stabili e democratiche.
Meloni, la memoria corta e la storia distorta
Tutto si può dire di Spinelli e Rossi, tranne che fossero nemici della democrazia. Erano due uomini che hanno speso la loro vita per combattere il totalitarismo fascista, in nome di un ideale di libertà e giustizia. È paradossale quindi che proprio Giorgia Meloni accusi di derive autoritarie chi, da antifascista, fu perseguitato e confinato dal regime che oggi, seppur indirettamente, rientra nella genealogia politica da cui proviene la sua storia personale e quella del suo partito.

Non si tratta di una sterile polemica sulle radici del post-fascismo italiano. È una semplice constatazione: la Presidente del Consiglio, che guida un partito che affonda le sue origini nella tradizione del Movimento Sociale Italiano e che ha nella sua stessa maggioranza figure che non fanno mistero di quell’eredità, si permette di dare lezioni di democrazia a chi fu vittima del regime fascista. È un cortocircuito che lascia almeno perplessi, se non altro per la scarsa coerenza storica.
Criticare l’Europa di oggi, senza falsificare il passato
Sia chiaro: l’Unione Europea di oggi merita critiche profonde. La sensazione che si sia trasformata in una tecnocrazia distante dai cittadini, attenta più alle logiche finanziarie e purtroppo militari che ai bisogni sociali, è diffusa e fondata. Io stesso condivido molti di questi dubbi. Non è questa l’Europa sognata da Spinelli e Rossi, e lo si può affermare senza esitazioni. Ma proprio per questo, la critica all’Europa di oggi dovrebbe essere fatta nel merito, senza falsificare la storia o piegare la memoria a uso e consumo delle convenienze politiche del momento.
Spinelli e Rossi hanno scritto un manifesto radicale, sì, ma profondamente democratico, ispirato all’idea che la libertà dei popoli e la pace tra le nazioni fossero obiettivi irrinunciabili. Usare quegli stessi concetti – la libertà, la democrazia, la giustizia sociale – per difendere un’Europa diversa da quella attuale è legittimo, anzi necessario. Ma non si può farlo distorcendo il senso delle parole e delle battaglie di chi, ottant’anni fa, pagò con l’esilio e con la persecuzione il proprio impegno per la libertà.
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