20 Febbraio 2025 | Tempo lettura: 7 minuti

Come i social parlano di salute mentale: intervista allo psicologo Gabriele Sorba

Sui social compaiono spesso contenuti sulla salute mentale, ma tra divulgazione e semplificazione il confine è sottile. Ne parliamo con Gabriele Sorba, psicologo che si occupa anche di divulgazione sui social.

Autore: Claudia Piras
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Gabriele sorba psicologo
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I social ormai sono dei contenitori in cui troviamo sostanzialmente tutto quello che ci riguarda e interessa. C’è l’informazione, c’è lo svago, c’è la scoperta di posti nuovi del mondo, c’è il lavoro e in maniera sempre più massiccia ci sono i temi della salute mentale. Abbiamo incontrato Gabriele Sorba, psicologo originario di Nuoro trapiantato a Cagliari, che si occupa di salute, equità e temi Lgbtqiapk+, per parlare con lui del rapporto con il consumo di contenuti sulla salute mentale sui social e quello dei professionisti e più in generale delle persone nel mondo reale, con il tema della salute mentale.

Quali sono i motivi che da psicologo e quindi operatore sanitario ti hanno portato a decidere di investire tempo e risorse su Instagram?

Come premessa direi che sono uno psicologo e abbraccio tutto ciò che significa esserlo. Sto per completare il mio percorso di specializzazione in Psicologia della Salute quindi ho a che fare con quel mondo; penso che la psicologia sia “perversa e polimorfa” – per alludere a Freud – e non mi sento un operatore sanitario in senso stretto. Detto questo, una delle mie battaglie personali è rendere chiaro che questo è un lavoro, ci pago l’affitto e un sacco di tasse e per quanto il funzionamento umano sia uno dei miei grandi interessi, è anche l’unico da cui ho ricavato una professione con cui mantenermi.

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Gabriele Sorba, foto di Gianluca Galasso

Come persona ho dei principi etici che sono dei pilastri insuperabili: l’antifascismo, l’antirazzismo, le battaglie per i diritti umani e l’antisessismo, ma al netto di tutto questo il mio è un lavoro. Mi sono abilitato durante la pandemia quindi per me lo step iniziale è stato muovermi nella contemporaneità e nella tecnologia, raggiungendo le persone con il computer perché non c’era altro modo. Facebook morente mi ha portato a decidere per Instagram, ho guardato tutti i contenuti che non mi piacevano e mi sono detto che avrei fatto il contrario.

Cosa ti piaceva e cosa no?

Mi piacevano e mi piacciono quelle colleghe e colleghi che hanno il coraggio di parlare di tematiche non comuni, ma non mi piace e non mi piaceva la banalizzazione, il culto della personalità e del vendere se stessi, che collide anche con il nostro codice deontologico. Mi infastidisce l’iniquità rispetto le tematiche sociali che invece hanno molto a che fare con il nostro lavoro: esiste il mito che non ci possa esporre essendo psicologi, ma il nostro codice deontologico dice che non si può utilizzare strumentalmente la nostra influenza. Lo psicologo può parlare di questioni sociali e politiche, osservando però il dovere di aiutare pubblico e utenti a sviluppare in modo libero e consapevole i propri giudizi, opinioni e scelte.

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Trovo che una chiave per me interessante sia quella della psicoeducazione, da psicologo non devi per forza metterti in cattedra ma puoi trasmettere conoscenza su un dato tema svuotandolo da un elemento di giudizio, spiegandolo, raccontandolo. Uno dei miei primi post è stato “cos’è il consenso?”, scegliendo un approccio che non mi mettesse in cattedra a spiegarlo ma che fosse tipo: cosa succede quando non chiediamo il consenso alle persone? Può essere successo a chiunque.

Non ho studiato prima di buttarmi sui social. Da persona neurodivergente ho deciso di utilizzare solo font ad alta leggibilità per rendere i miei contenuti accessibili, così come vorrei fosse fatto da chi seguo come utente, e ho mediato tra i miei gusti estetici e quello che penso possa essere facile da recepire, senza rinunciare ad alcuni elementi sottoculturali come la musica, che metto nelle stories. Sono felice quando i follower sono infastiditi così ho la prova che quella parte di me è intatta.

Ti definiresti anche un content creator per il modo in cui selezioni e filtri gli argomenti e li proponi?

Faccio io una domanda: se non ci fosse stato Instagram avrei avuto uno stile diverso spiegando altrove le cose di cui mi occupo? No. Sono uno psicologo e utilizzo le risorse che ho, quale che sia il contesto. Il fatto che io abbia delle competenze su come funzioni il cervello e faccia delle slide su questo, mi sembra il minimo sindacale per uno psicologo. Quindi no, non parlerei di creator.

L’aspetto diagnostico non può essere lineare come viene raccontato sui social

Parlando sempre di salute mentale, qual è il rapporto tra divulgazione social e autodiagnosi? I social favoriscono la superficialità e un approccio tipo “ho letto questo quindi ho tale patologia”? Se sì, è un male o può essere un punto di partenza?

Sono stato una persona non riconosciuta come neurodivergente fino all’età adulta quindi, conoscendo la complessità dell’iter vissuto, di pancia direi che è un male. Il processo diagnostico non è semplice e i test indagano vari ambiti, banalizzare ad esempio la categoria diagnostica – diciamo ADHD, per citarne una molto chiacchierata – sminuisce il fatto che ci sono delle persone che hanno tratti comuni a livello diagnostico ma non comuni a livello personale. Viene quindi messa un’etichetta davanti alla persona, e questo contribuisce alla polarizzazione tra neurodivergenti che non si sentono riconosciuti e quelli che dicono “ai tempi miei questo non esisteva”.

Si rischia la fallacia anche nel fermarsi e nel dire “io mi riconosco in questa cosa”, senza che poi si indaghi oltre. Trovo che ci siano infinite piccole sfaccettature che rischiano di non venire fuori sui social: una persona può riconoscersi come ADHD ma magari è anche cresciuta in un contesto difficile o ha un problema di abuso di sostanze. La testistica online poi è orribile, fatta male, e non è etica; è un approccio neurocapitalista, si capitalizza cioè il bisogno di conoscere se stessi alimentando l’idea del “tutto e subito”, della diagnosi netta, della categoria, delle piattaforme che ti vendono i test.

Io lo trovo non etico e svilente per i professionisti e per le persone. Anche chi non è un professionista deve avere una piattaforma per parlare delle proprie esperienze e fare attivismo, ma bisogna capire che l’altro aspetto – quello diagnostico – che non può essere lineare come a volte viene raccontato sui social, rischiando quindi di non ritrovare quella semplificazione nel mondo reale.

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La brandizzazione delle patologie è stato un altro esito dell’approdare della salute mentale sui social. Bipolare, borderline, evitante, ADHD e un proliferare dei famosi “5 modi per scoprire se il tuo partner è narcisista”. Come leggere questo fenomeno?

Dopo che è uscito il film “L’esorcista” si è creata un’industria di film sulla possessione demoniaca. Ecco, per me il discorso è simile: il disturbo narcisistico di personalità esiste, ha dei suoi criteri diagnostici e una sua percentuale sulla popolazione standard molto bassa, per cui chi ha un disturbo di personalità non lo trovi facilmente. Quindi, proseguendo con il parallelismo il film, a cascata ci sono tutti quelli che vogliono fare l’esorcista low budget e lanciarsi a scrivere di narcisismo. E allora ecco che ci si  inventa che il narcisista è ovunque in modo che un contenuto giri parecchio e crei un vero filone.

Siamo al limite della discriminazione e dispiace che il mondo della divulgazione – che si pone come così attento – poi non segua il filone etico ma quello della pancia, in cui trionfano le soluzioni facili e i nemici da identificare. Chi ha un disturbo narcisistico di personalità ha spesso bisogno di supporto clinico: così non si invoglia a cercare una soluzione.

Nel lavoro con gli studenti hai notato se il consumare contenuti sul tema abbia un impatto sul modo di parlare di salute mentale?

Decidono di studiare psicologia spesso perché si sono nutriti di contenuti sulla salute mentale, anche se contemporaneamente assorbono anche il concetto che siano studi con uno sbocco lavorativo ormai difficile, visto che bisogna muoversi totalmente nel privato e che nel pubblico esistono pochissime possibilità. In generale, la gente ha un’infarinatura in più sulla salute mentale ma la conoscenza non è migliorata; ma questa è la mia opinione personale, non un dato incontrovertibile.