Per dialogare bisogna partire dal silenzio
Dialogare stando in silenzio? Spesso non parlare è il primo passo per creare una vera comunicazione. Carola Truffelli dell’associazione Filò riflette su questi aspetti partendo dal racconto di un esperienza che ha vissuto durante un laboratorio in un asilo.

Fare dialogo filosofico in classe, qualsiasi sia l’età dei piccoli umani con cui si lavora, è complesso. I primi incontri sono il caos: si passa dal setting frontale a quello circolare, si cerca di far comprendere come quella sia la materia in cui “non ci sono risposte giuste” e soprattutto si parla. Un’esperienza che sembra scontata: parliamo al bar o in pizzeria, parliamo in fila in posta e al cinema sottovoce, parliamo nei parchi e nei musei. Siamo una delle specie più rumorose e vocianti della terra. A volte mi perdo a pensare a come dobbiamo sembrare strani visti dal punto di vista di un albero o di un cane: sempre intenti a produrre articolati suoni con la bocca.
Ma parlare è tutt’altra cosa rispetto a dialogare. Per un dialogo serve il silenzio. Ai/alle bimbi/e più piccole/i mi piace di solito dire: “Sapete… la filosofia si fa soprattutto con le orecchie”. All’inizio non capiscono, verso la fine del percorso a volte qualcuno lo vede: fare filosofia significa stare in ascolto di ciò che accade. Prima che di interrogare, smontare, analizzare e comprendere, si tratta di ascoltare.

A un certo punto succede: le idee iniziano a intrecciarsi, qualcuno riprende il pensiero di un compagno, lo trasforma, lo contraddice o lo espande. È in quel momento che il cerchio filosofico prende forma e diventa qualcosa di più del semplice “parlare”. Io li osservo girarsi verso il/la compagno/a e mi dico internamente: “Eccoci, co-costruiscono conoscenza! Si sono ascoltati!”. Ma per arrivarci serve tempo. Serve imparare che il silenzio non è vuoto, ma spazio per riflettere. Serve fidarsi: non avere una risposta immediata non significa essere in errore. E soprattutto: serve stare in attesa nel silenzio altrui.
I primi incontri sono difficili e complessi perché i piccoli esseri umani – e anche quelli che tanto piccoli non sono più – si interrompono di continuo, urlano più forte: attendere sembra impossibile! A volte è l’entusiasmo delle idee che vorticano nelle loro menti, altre la voglia di commentare col vicino, altre ancora il buon vecchio desiderio di trasformare ogni lezione in intervallo.

Ma stare in attesa nel silenzio è un’esperienza che cerco sempre di far provare loro. Perché? Perché alcuni di noi hanno bisogno di spazio per esistere in un dialogo. Perché l’ambiente del dialogo può essere l’ennesima messa in scena di minute dinamiche di potere tra chi si fa sentire e chi non viene mai ascoltato. A volte è il disinteresse o la timidezza che ci fa stare zitti, altre volte forse è qualcosa di più complesso.
Qualche settimana fa ero alla scuola dell’infanzia a lavorare con un gruppo di cinquenni vivaci. Prima degli incontri le maestre mi raccontano di V. che non ha mai aperto bocca in classe, nessuno sa come sia fatta la sua voce. Mi dicono di non preoccuparmi se non interviene. Al primo incontro presento “lo scettro della parola”: un bastoncino di legno con stellina glitter, niente di speciale. Racconto che chi ha lo scettro diventa re o regina della parola e, come si conviene, re e regine vengono ascoltati.
Parlare è tutt’altra cosa rispetto a dialogare. Per un dialogo serve il silenzio
V. mi guarda con gli occhi grandi dei bambini attenti. Propongo un giro di nomi per imparare a usare lo scettro: si passano la bacchetta e dicono i loro nomi, uno via l’altro, fino al turno di V. che prende lo scettro e fa un sorriso enorme. Gli altri intervengono subito: “Ma no maestra V. non parla!” Chiedo a V. se se la sente di dire il suo nome, fa no con la testa e il dialogo prosegue. Dopo un primo momento di entusiasmo, la classe si fa quieta e riusciamo a stare in silenzio per due o tre respiri.
È a quel punto che la mano di V. si alza, gli viene consegnato lo scettro e tenendolo alto sulla testa declama il suo nome. La classe esplode! Urlano, ridono, fanno applausi: “Maestra hai visto, hai visto! Ha parlato anche V.! Non avevo mai sentito la sua voce!”. Mi sono chiesta tanto cosa sia successo quel giorno a V. Mi rispondo che forse, se stessimo più in silenzio, potremmo accorgerci dei delicati tentativi di tutti di appropriarsi di quello scettro magico che ci fa sentire ascoltati.
Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi