Nel Carnevale e nelle maschere sarde la natura bestiale dell’essere umano
Il Carnevale sardo è istinto, ribellione, ritorno alle origini. Maschere, suoni e riti infrangono ogni regola, in un viaggio senza tempo tra sacro e selvaggio. Percorriamolo insieme.

Carnevale in lingua sarda è Carrasegai – Maimoni. Si tratta di un tempo di pausa tra le festività per la nascita del Cristo e la sua Passione e Resurrezione. Un tempo sospeso prima della Quaresima in cui tutto è capovolto o forse, per una volta, qui nell’isola ancestrale, in cui tutto può esprimersi secondo Natura.
LE ORGE PRIMA DELLA QUARESIMA
Inquadriamo comunemente il carnevale in un tempo sospeso il cui computo è prioritariamente assegnato all’istituzione cattolica. Questo è ovviamente un risultato sincretico tra le ritualità pagane di festività solstiziali come i saturnalia e i lupercalia, ma anche con ritualità precedenti che si fondono nelle irriconoscibili sfumature dei suoni del tempo. Festività che si esprimono come sempre con grandi orge alimentari accompagnate da danze e suoni di allegrezza comunitaria. In Sardegna non è casuale infatti che l’uscita delle maschere carnevalesche si sia sincronizzata col grande fuoco di Sant’Antonio, seguendo una fisiologica linea simbolica di lento passaggio dall’inverno alla primavera.

C’è da dire che questa piega della prima uscita delle maschere tradizionali in quel giorno specifico uguale in tutta l’isola è qualcosa di moderno ma funzionale alla strutturazione cosciente di un’identità che necessita di esprimersi in modo uniforme. Si tratta di una spinta fisiologica affinché la dinamica culturale possa manifestarsi nel rapporto con l’alterità in un contesto globalizzato. La funzione culturale e rituale invece risponde alla necessità di liberare lo spirito selvaggio di un’etnia radicata e profondamente legata alla Natura. Un mondo alla rovescia per la cultura egemone ma il vero mondo per quella subalterna.
MUTARE FORMA PER TORNARE ALLA SOSTANZA
In sardo la maschera è Caratza, faciolla o anche màscara. Il termine maschera ha un etimo che si colloca nella dimensione del sovrannaturale: nella lingua piemontese attuale indica niente meno che la strega locale con tutte le sue peculiarità specifiche. Con maschera indichiamo anche i ruoli nella commedia tradizionale, ruoli che hanno caratteristiche e caratterizzazioni spesso fisse e che quindi indicano un personaggio dal nome e funzione narrativa familiare. In sardo la semantica di questi termini indica lo strumento di occultazione del volto e quindi la funzione di impersonificazione.
Mi viene in mente la figura di Minchilleo a Samugheo, pura goliardia e dissacrazione istituzionale giovanile. Ecco quindi che si indossa la maschera per nascondere ma anche per mutare forma. Nell’isola non ci si traveste semplicemente, ma si abita un ruolo o un essere mitico, si impersona la zoomorfosi. Si tratta di rituali antichi e carichi di simbologia dal chiaro sapore animista e sciamanico tradizionale: uomini che diventano bestie e bestie che diventano uomini in una danza ritmica e costante che ne scolorisce i contorni originari.

LE MASCHERE DEL CARNEVALE
Lo scopo del carnevale è la sovversione dei ruoli sociali nello stato di cose di quel momento, ma come abbiamo visto anche lasciare libero lo spirito selvaggio, ovvero l’immaginario culturale radicato nella naturalità degli elementi e delle loro relative connessioni. Così l’uomo diventa donna palesando la sua energia intuitiva e oscura, il vecchio ritorna bambino manifestando la gioia della spontaneità senza conseguenze, il ricco diventa povero lasciando fluire la necessità di formale apparenza. Ci si veste di stracci, ci si nasconde il volto col nero o con veli e maschere.
L’essere umano assume sembianze di animale che sempre più viene avvicinato all’essere umano nelle sue caratteristiche. I Boes e Merdules di Ottana mimano un rapporto tra bestia e umano in posa di ricerca di equilibrio reciproco, il Boe che mette di traverso il capo è un’immagine che inquieta e ce lo rende familiare. Al simbolo del fiore della vita nell’intraciglio del Boe si affianca quello de sa pintadera de is Ingestus di Tertenia le cui maschere caprine e i sonagli mostrano con chiarezza l’ancestralità della necessità di riunirsi alla natura.
S’ainu orriadore di Scano di Montiferro è la perfetta sincronia tra bestia e umano: si strozzano i versi atavici di quest’essere dietro la loro maschera d’osso mentre le pelli, il cuoio, il ferro delle catene amplificano l’inquietudine dietro questa figura zoomorfa. Avvicinano il loro volto a quello degli attendenti, segnando di nero il loro intraciglio e il naso, in un rituale che invito a sentire sulla propria pelle. Il ruolo del nero – su foddini, la fuliggine – non è di poco conto, indica proprio la capacità di nascondersi nell’oscurità con tutta la mitologia solstiziale mediterranea annessa.
Il carnevale sardo ha, nella sua forma, una dimensione comunitaria locale sia nelle ritualità che nelle ricadute economiche
SENZA VOLTO NELLA NATURA COMUNITARIA
Nonostante i tempi moderni liquidi e globalizzati, il carnevale sardo ha, nella sua forma, una dimensione comunitaria locale sia nelle ritualità che nelle ricadute economiche. In questo modo l’agropastoralismo dietro questi riti ha l’opportunità di esprimere una funzione di supporto ma ha anche il modo di ricollegarsi ai sistemi culturali sovracomunitari. Come i santuari nuragici ci dimostrano, è fondamentale la condivisione delle istanze rituali e delle risorse comunitarie a livello territoriale; in un contesto di occultamento dell’individuo sono i gesti a comunicare e condividere conoscenze e risorse.
Patrimoni materiali fatti di artigianato e sistemi economici tradizionali, ma anche patrimoni immateriali fatti di antiche conoscenze, sapienze e competenze sulla natura selvaggia della vita isolana. Un aspetto importante in questo senso è certamente quello della paura dell’oscurità, dell’ignoto e dell’indomabilità tipico della Natura: attraverso questi riti si educa al coraggio e al rispetto dell’elemento naturale. Si allenano le nuove generazioni al dominio della propria forza e alla liberazione dell’istinto.
Sentire i grossi sonagli cadenzati in ritmici scrosci di Mamuthones e Issohadores di Mamoiada ci riporta a un immaginario di lotta organizzata, come anche Is Scruzzonis di Siurgus Donigala che con sa metalla si muovono insieme come fossero un serpente, incutendo timore e rispetto. Ogni volta che vedo maschere di questa conformazione immagino i Romani che cercano di inoltrarsi nelle Barbagie passando per Trexenta, Sarcidano e Ogliastra e che arrivando sentono questi suoni tra le boscaglie e vedono queste figure nel buio della notte. Che sia questo il segreto per cui non sono mai riusciti a conquistare completamente l’isola?

Un’altra funzione fondamentale dei riti di passaggio tra queste due stiagioni, quella invernale e quella primaverile sono i riti legati al culto dell’acqua: Maimoni potrebbe essere la rifunzionalizzazione di una divinità elementale legata all’acqua, a riti di purificazione e fertilità.
FOLKLORE O TRADIZIONE?
La domanda, il dubbio è sempre lo stesso quando si parla di tradizioni sarde e di ritualità radicate. Mi ha particolarmente divertito vedere che la polemica sulla continua nascita di maschere a ogni “carneval sospinto” sia entrata nel carnevale stesso. All’evento di Macomer di quest’anno c’era per esempio un gruppo di maschere davvero goliardico che aveva le fattezze della maschera tradizionale con mastruca, volto nero, cosingius, qualche campanaccio, ma in testa aveva un copricapo di antunna – un fungo – e portava nello stendardo la scritta “Di tutte le maschere inventate noi siamo le uniche trifolate”.
Non entro nel merito della polemica specifica ma colgo l’occasione per sottolineare l’importanza del fatto che in Sardegna l’elemento identitario è fondante e che grazie a ciò esiste un dibattito forte e continuo. Mi viene in mente il caso virtuoso di Is Cambas de linna di Guspini che hanno integrato nel loro carnevale una maschera di origine circense e di acquisto recentissimo, arricchendo le loro dinamiche culturali interne ed esterne alla comunità. La mia opinione è che non dobbiamo dimenticare in primis che i sardi amiamo sardizzare qualunque elemento si affacci nella nostra cultura e in secondo luogo che tradizione significa insieme di elementi da trasportare nello spazio e nel tempo.

Per cui, se dietro questo trasporto c’è una spinta di volontà popolare, chi siamo noi per fare censura a questa dinamica? Al netto delle sovvenzioni regionali, senza volontà popolare le dinamiche popolari sono destinate all’oblio e questo è l’aspetto da cui trarre forza identitaria. Che nascano gruppi di maschere di Janas e Kogas e di tutte le figure mitologiche della nostra cultura affinché le nuove generazioni abbiamo il sigillo della nostra identità nel loro immaginario.
In questo mondo alla rovescia in cui amore significa abuso, pace guerra, democrazia dittatura, globalizzazione solitudine, il sardo per essere se stesso anche nella forma deve aspettare carnevale. Oh Maimoni, fai tornare l’acqua nei nostri fiumi prima che arrivi la Rossa Signora che tutto divora! Noi riponiamo fiducia nella Natura, nel suo equilibrio viviamo e prosperiamo. Aici siat.
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