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In una società globalizzata, regolata da azioni, ritmi e valori, spesso, disumani, è ancora possibile sperare in una sana affermazione di sé, di stare al mondo e in relazione con gli altri? A tal proposito quanto è importante promuovere in modo capillare l’educazione emotiva per lo sviluppo di una società sana e consapevole? L’ho chiesto alla dottoressa Ana Maria Sepe, psicologa di origini venezuelane nonché ideatrice e fondatrice, insieme ad Anna De Simone, dottoressa in biologia e psicologia, di Psicoadvisor, rivista online di psicologia e neurobiologia.
Entrambe sono autrici di diversi saggi. L’ ultimo, di recente pubblicazione, è Il mondo con i tuoi occhi, una sorta di filtro attraverso il quale i lettori si specchiano e si identificano guardando oltre, dentro sé stessi, trovando risposte psicologiche chiare ed esaustive e anche l’occasione giusta per iniziare a migliorarsi e a volersi bene con l’auspicio di poter dare vita a tante piccole comunità emotivamente evolute.
Dottoressa Sepe, cosa intende per educazione emotiva?
L’educazione promuove, mediante l’insegnamento diretto e il buon esempio, lo sviluppo di facoltà e attitudini indispensabili per il percorso di vita individuale e l’integrazione in contesti sociali. Culturalmente, nell’educazione che viene trasmessa nelle famiglie, è purtroppo carente la componente emotiva. Eppure sono proprio le emozioni quelle che guidano i nostri comportamenti, che scandiscono il nostro appagamento e che facilitano oppure ostacolano l’integrazione nei contesti sociali. Con l’educazione emotiva si cerca di risanare quel gap. Perché diciamocelo: fin dalla nascita non ci viene insegnato nulla su cosa siano le emozioni e quanto preziose possano essere per noi, per la società e finanche per il nostro organismo.
Quanto è importante promuoverla nelle scuole e anche in altri contesti?
È essenziale. Gli effetti della mancanza di un’educazione emotiva sono sotto gli occhi di tutti. Le conflittualità, l’impulsività ma anche fenomeni complessi come il bullismo, hanno a che fare con il modo in cui ognuno di noi gestisce le proprie emozioni. Anche lo scrolling compulsivo e quindi l’abuso dello smartphone che viene spesso recriminato ai giovani, è una delle tante conseguenze della cattiva modulazione emotiva. Poiché i nostri stati interiori ci causano disagio, scappiamo da essi rifugiandoci nei social, nei like che riusciamo a racimolare o in quel breve intervallo in cui un video riesce a distogliere, almeno per un po’, l’attenzione da ciò che proviamo.
In mancanza di una buona educazione emotiva infatti, le emozioni diventano sempre soverchianti e quando sperimentiamo uno stato d’animo pervasivo come la rabbia, la frustrazione ma anche il vuoto, la tristezza, invece di modularlo lo attenuiamo attuando dei comportamenti disfunzionali. È chiaro che al termine di quei comportamenti le emozioni scomode sono ancora lì. Ed ecco che sentiamo il bisogno di re-agire e ri-fuggire, ancora e ancora, senza mai fermarci e automodularci.
Cosa vuol dire costruire delle comunità consapevoli in un contesto di società emotivamente evoluta?
Costruire una comunità consapevole vuol dire rendere le persone consce di come funziona la cognizione umana. In fondo, a scuola facciamo un corso per utilizzare al meglio la lingua, ci spiegano regole grammaticali, fonetiche, sintattiche e anche se potremmo apprenderla in contesti familiari, ciò non accade perché è ovvio che ci occorrono strumenti per non fare errori. Però quando si parla di emozioni le cose sembrano non essere altrettanto ovvie. Si lascia ogni apprendimento al caso e questo lascia molto spazio a involontari e inevitabili errori.
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Per secoli ha generato confusione, esasperazioni e malesseri, ne è una testimonianza il “male di vivere” dei grandi poeti, ma anche i gesti estremi che da decenni si contano in Italia. Nel nostro paese, per esempio, la stima sui suicidi si attesta stabile intorno ai 4.000 morti all’anno (dati ISS), un costo di cui si parla pochissimo. Inoltre oggi che il confronto sociale è amplificato dai social network, si è passati dalla confusione al caos. In una società emotivamente evoluta non esisterebbero costi sociali da scontare, né strategie disfunzionali di regolazione emotiva con ovvie ricadute positive sull’intera comunità.
Quali sono gli ingredienti per creare una società evoluta?
Anzitutto alla base vi è un’esigenza che deve essere percepita non solo da noi professionisti del settore ma da tutti. E questa esigenza c’è, altrimenti non potremmo spiegarci il successo di Psicoadvisor e soprattutto dei nostri saggi. Quindi le persone hanno proprio voglia di capire e capirsi, di mettersi in discussione, di crescere, di evolversi. L’ingrediente mancante è l’offerta: un piano d’azione a più livelli che possa soddisfare la domanda.
Da un lato sarebbe necessario introdurre l’educazione emotiva nelle scuole, dall’altro organizzare corsi per gli adulti. È chiaro che sarebbe auspicabile un intervento istituzionale. Piccoli passi si stanno intravedendo anche se l’alba è ancora lontana. Castellana Grotte, per esempio, è stato il primo comune d’Italia a offrire un corso di alfabetizzazione emotiva dalla durata di un mese, gratuito e fruibile da tutti i cittadini. L’affluenza è stata grande, ulteriore testimonianza dell’attenzione e dell’interesse da parte delle persone.
Può chiarire la metafora della “sacca vuota”, spesso menzionata nel saggio?
L’assenza di un’educazione emotiva fa sì che ognuno di noi, fin dalla nascita, sia “addestrato” a sopprimere ogni stato emotivo. Le manifestazioni di sé che sono scomode nell’ambiente familiare al bambino non vengono “spiegate”, ma gli viene chiesto semplicemente di “cessarle”. Purtroppo le espressioni emotive e in generale tutte le manifestazioni di sé non hanno un tasto “on/off”, pertanto ciò che facciamo, fin da piccoli, è reprimerci.
Così, fin dalla nascita, ognuno di noi prende le parti di sé ammonite nei contesti sociali e le pone in una sacca. Fa questo ogni giorno. È chiaro che quando arriviamo all’età adulta possiamo ritrovarci con una sacca enorme, pesante, che non sappiamo come gestire, che vorremmo soltanto scaricare o alleggerire. È una sacca piena di “non detto”, ricca di parti di sé soppresse e ancora da scoprire, emozioni inespresse che hanno ancora voglia di essere ascoltate… Ecco perché, anche se pensiamo di conoscerci, in realtà sappiamo davvero poco di noi stessi. Nel libro spieghiamo come iniziare a guardare in quella sacca e tornare a essere protagonisti della propria vita, oltre ogni condizionamento.
Cosa intende per “oltre” i condizionamenti, le rigidità culturali, gli apprendimenti impliciti?
Per riappropriarci della nostra funzione emotiva dobbiamo imparare a ragionare oltre le credenze e gli apprendimenti impliciti che ci hanno trasmesso fin da bambini. Una tra tutte? Ci viene insegnato che le emozioni sono un qualcosa di astratto, irrazionale e che il più delle volte vanno ignorate perché sono un intralcio. Niente di più sbagliato: le emozioni sono concrete. Le sentiamo perché nel nostro organismo si verifica una reazione biochimica che ci consente quel “sentire”.
Inoltre non sono affatto irrazionali: sono una funzione biologica essenziale. Le emozioni infatti da un lato guidano i nostri comportamenti e dall’altro informano costantemente il nostro organismo su ciò che ci sta succedendo. In base alle informazioni mediate dal nostro “sistema emotivo”, il nostro organismo “decide” come usare le risorse che ha a disposizione. Per esempio, se il nostro “sistema emotivo” ci dice che stiamo bene, il nostro sistema nervoso centrale andrà a sostenere in modo ottimale tutti gli organi e gli apparati.
Al contrario, se vi è uno stato di tensione anche il nostro sistema nervoso centrale va in allerta e inizia a sovraccaricare dei sistemi – per esempio, il sistema cardiovascolare – sottraendo risorse ad altri apparati. Oggi infatti sentiamo spesso parlare di “patologie funzionali” perché all’esame clinico il medico non trova nessun disturbo: l’organismo sembra stare bene ma funziona male, non usa in modo ottimale le sue risorse.
Altre credenze e rigidità culturali riguardano indubbiamente l’identità di genere. La cultura vigente pone dei limiti all’esperienza emotiva in base al sesso, imponendo la rinuncia a qualsiasi vulnerabilità ai maschi e obbligando le femmine a limitarsi nell’autonomia. Come è chiaro, l’inghippo non è solo nel dominio del fare – oggigiorno siamo abbastanza emancipati da capire che una donna può diventare astronauta come Samanta Cristoforetti e un uomo può fare il casalingo – ma risiede soprattutto nel “dominio dell’essere”.
In entrambi i casi infatti si preclude la possibilità di affermarsi come persone complete. Ancora una volta, gli scompensi che riguardano questi dettami culturali sono sotto gli occhi di tutti: non parliamo solo della violenza di genere e dei femminicidi. È vero che la donna è oggettivata ma, anche se se ne parla più raramente, lo è l’uomo in egual misura. Ricordate la statistica sui suicidi vista prima? Quasi l’80% del campione che compie l’estremo gesto è di sesso maschile.
È chiaro che l’idea di mascolinità e femminilità vigente pone dei forti limiti all’esperienza umana dettando dei vincoli alla possibilità di accedere a tutta una gamma di emozioni. Quando veniamo al mondo alcuni stati emotivi sono incentivati nelle bambine e scoraggiati nei bambini. Lo ribadisco, sono sempre le emozioni a guidare i nostri comportamenti con effetti che sono ormai evidenti a tutti.
I condizionamenti riguardano tutti noi e ci impongono di guardare al mondo non con i nostri occhi ma sempre con una lente discorsiva ereditata dai nostri contesti familiari. Ognuno di noi infatti, durante la crescita, incontra molte pressioni e subisce dei sottili modellamenti su ciò che può e non può sentire e quindi su ciò che può e non può essere. È chiaro che questo modellamento non sempre si sposa con le nostre ambizioni e attitudini personali e questo vale chiunque. Tutto l’inespresso, come già detto, non sparisce ma finisce in una sacca invisibile che ci appesantisce.
Ci ritroviamo dunque da adulti a vivere una vita che non rispecchia profondamente le nostre aspirazioni più profonde perché le abbiamo sigillate lì, in quella sacca. Allora siamo confusi e completamente all’oscuro dei meccanismi che ci hanno condotto fino a quel punto della nostra vita, allora incolpiamo in modo astratto noi stessi o la società, senza capire l’intricato nesso causa-effetto che muove tutto. Senza prestare attenzione alla componente emotiva. Un’attenzione che, se ben riposta, potrebbe davvero fare la differenza nella nostra società.
Se ti interessa l’argomento leggi anche la storia del Centro Tice.
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