Orti Generali, l’area rigenerata che da cinque anni fa “scuola” di orto urbano
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Torino - C’è chi fa l’orto e chi l’accompagna, c’è chi fa volontariato e chi arriva per fare visita a qualcuno che è lì e poi c’è chi semplicemente vuol passare un po’ di tempo in compagnia. Siamo a Torino, zona Mirafiori, a Orti Generali – un progetto di rigenerazione urbana di cui vi abbiamo parlato qui –, un’area del parco fluviale situata sulle sponde del torrente Sangone che da semi-abbandonata è diventata un orto collettivo e soprattutto un vivace luogo di incontro per moltissime persone che ogni giorno portano qui un po’ di sé.
“Siamo come fiume che scorre e modifica i propri confini e la morfologia del luogo in un ecosistema in evoluzione”, scrivono sulla loro pagina Facebook. In effetti dal 2019 a oggi Orti Generali si è evoluto significativamente. Al momento del suo avvio erano stati realizzati 160 orti urbani e il progetto riscosse da subito un grande successo, con una crescente domanda da parte della comunità, complice anche la mancanza di iniziative simili a Torino.
Ora, dopo cinque anni, la lista di attesa sfiora quota 1200 persone che aspettano di essere chiamate per avviare il proprio orto urbano. Per far fronte a questa enorme richiesta, lo staff ha iniziato a pianificare un’estensione del progetto. Ne abbiamo parlato con Stefano Olivari, il paesaggista che si occupa di gestire le parti verdi del progetto, quindi tutte le trasformazioni fisiche di Orti Generali.
Stefano, ci racconti che cos’è Orti Generali?
Orti Generali è un’iniziativa di riqualificazione urbana che si concentra sulla valorizzazione delle risorse paesaggistiche e ambientali. Il rischio è che aree come queste vengano percepite dalle istituzioni come dei vuoti e che vengano quindi destinate a servizi, supermercati, pompe di benzina, campeggi. La risorsa agricola e in generale la terra non si difendono da sole, ecco perché c’è stato bisogno di creare una federazione di più soggetti intorno a questo spazio, attraverso un progetto mirato a coinvolgere un numero elevato di persone proprio attraverso l’orticultura. Tra gli intenti c’è anche la tutela della fertilità dei suoli per le future generazioni.
Come si è evoluto il progetto negli anni?
Ci sono stati diversi cambiamenti rispetto al 2019. Due anni fa la città di Torino ci ha concesso tre ulteriori ettari di terreno, su cui sono stati avviati dei lavori per creare nuovi orti. Su un ettaro in particolare è stata creata una struttura paesaggistica a Food Forest – un sistema che, ispirandosi al bosco, cerca di produrre il massimo in termini di cibo, fibre e legna da ardere, ndr – per i nuovi orti che verranno, mentre in un’altra area del parco – molto grande e suggestiva che gode di una conformazione ad anfiteatro – è stata progettata una zona dedita all’ecopascolo – ossia un gruppo di animali “reclutati” da enti, associazioni e istituzioni in città affinché si nutrano delle piante infestanti nei parchi urbani, per evitare di dover utilizzare erbicidi o macchinari, ndr –, dove sono state introdotte delle mucche scozzesi per gestire, arricchire e migliorare il terreno.
Su quest’area a prato la città di Torino non effettuava nemmeno un servizio, così abbiamo optato per questa scelta per fertilizzare il suolo senza l’utilizzo di mezzi a motore e combustibili di origine fossile. La ruminazione poi cambia moltissimo la composizione botanica e porta una vita biotica decisamente più interessante e varia.
Un altro aspetto riguarda il nostro impegno in ambito didattico: lo scorso anno sono stati ospitati circa 1700 bambini, per questo adesso abbiamo una persona che si occupa proprio della parte educativa e di accogliere le scuole e le famiglie. Questo è un filone che sta crescendo molto e che ci interessa, anche perché una delle nostre finalità principali, oltre ad avvicinare il mondo della città alla campagna, è sempre stata anche quella di portare avanti un lavoro più culturale sulla sensibilità ambientale collettiva.
Come vi sembra stiano reagendo i torinesi alle vostre iniziative?
Orti Generali è un progetto apprezzato da tante persone. In particolare a molti, quando vengono qui, non sembra nemmeno di stare in città oppure hanno l’impressione di essere all’estero, a Berlino o in una urban farm in Inghilterra. Di questo siamo contenti perché vuol dire che siamo riusciti a portare molti usi diversi e differenziati su quest’area e anche una compresenza di tanti soggetti diversi, ortolani, scuole, famiglie, persone che frequentano i nostri corsi o partecipano a eventi particolari, come la Social Passata, la giornata in cui si fa tutti insieme la salsa di pomodoro, o ai mercatini di produttori indipendenti. Tutti questi appuntamenti hanno come finalità quella di coinvolgere persone affini su questi temi e farle conoscere.
Uno spazio vissuto e frequentato quindi?
Desideravamo che diventasse un’area pubblica e così è stato, quindi sul piano del presidio l’obiettivo è raggiunto. Qui prima veniva al massimo qualche decina di persone a portare a passeggio il cane, lasciando a casa cellulare e portafoglio per la paura del campo nomadi poco distante – la percezione del pericolo talvolta è sovradimensionata, perché tutte le persone presenti sono estremamente tranquille. Adesso ne arrivano ogni anno decine di migliaia.
Con i corsi in particolare abbiamo cominciato un po’ timidamente con proposte molto basiche rivolte ai nostri ortolani, per esempio i corsi di orticoltura biologica. Abbiamo man mano integrato poi con corsi di potatura, di apicoltura, coltivazione di fiori da taglio, foraging, cioè riconoscimento erbe selvatiche e uso della flora spontanea a scopi alimentari. In questo senso Orti Generali è diventata negli anni un’area pubblica polifunzionale: ci sono la fattoria didattica con l’ecopascolo, le mucche scozzesi e le galline, vengono le scuole in visita didattica e ci sono gli orti tematici, quindi tutte le caratteristiche del campo agricolo sono ampiamente esplorate.
Facciamo un passo indietro: cosa c’era qui a Mirafiori prima di Orti Generali?
Credo che il contesto sia comune a molte aree industriali italiane, ma anche europee: mi riferisco a città con uno sviluppo industriale estremamente veloce, quello del boom economico, che ha richiamato tantissima manodopera da fuori. Si trattava per lo più di persone provenienti da un contesto contadino che andavano a vivere in case popolari, talvolta occupate abusivamente prima ancora dell’assegnazione, che contestualmente cercavano anche spazi liberi dove fare un orto e portare avanti una sorta di continuità con il proprio passato.
D’altronde erano persone che avevano passato tutta la vita all’area aperta e che quindi non sarebbero riuscite a stare intere giornate costrette all’interno di scatole di cemento. E poi desideravano contribuire al fabbisogno alimentare della famiglia. Va considerato poi che le aree agricole erano anche spazi di relazione: qui a Mirafiori gli orti abusivi erano circa duemila, dove si sviluppava una socialità molto forte – un parroco, per dire, veniva qui a celebrare la Messa la domenica – dove le eccedenze diventavano merce di scambio, instaurando una certa circolarità fatta di “dono e controdono”.
Intorno a quella pratica c’era un mosaico di periferie molto classico, comune a buona parte delle città del Novecento, in cui non ci si curava dello sviluppo e delle soluzioni di vivibilità. Venivano costruiti così case popolari, fabbriche, centrale elettrica, un cimitero ed erano tutte entità slegate tra loro, aree dove la risorsa naturale veniva così erosa da non essere nemmeno più percepibile. Si tratta di un’urbanizzazione che dà le spalle ai fiumi anziché affacciarvisi, in cui la natura non era la trama di senso del quartiere intorno alla quale invece il quartiere stesso avrebbe dovuto svilupparsi.
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