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In alcune zone del mondo cultura e tradizioni hanno un lato oscuro che calpesta i diritti, in particolare quelli dell’infanzia e delle donne. Per cambiare le cose, Grandmother Project interviene proprio sui fondamenti culturali utilizzando come “agenti del cambiamento” le donne anziane, che diventano un ponte fra generi e generazioni innescando una trasformazione nella società di luoghi come il Senegal – sede principale del progetto – e dell’Africa tutta.
Ecco perché quando la redazione di Italia che Cambia mi ha proposto questo articolo mi sono subito rallegrata: stavo per parlare con una donna che, come me, per tanti anni si è occupata di Africa e di donne. Quelle che vivono in paesi e culture in cui i diritti più basici sono quasi sempre negati – il diritto alla scelta del marito, alla sanità, all’educazione, alla sessualità, al numero di parti. In poche parole, donne che vivono spesso con la coscienza dei propri diritti, ma semplicemente non possono esercitarli a causa dei blocchi imposti dalle tradizioni, dalla famiglia, dal villaggio e dalla società.
La dottoressa Judi Aubel è Fellow Ashoka – ovvero fa parte della rete di innovatori e innovatrici sociali di Ashoka, ONG che promuove il cambiamento sociale e ambientale – sin dal 2012 e mette in campo tutte le sue conoscenze accademiche, le sue esperienze di vita e soprattutto il suo cuore affinché anche in alcuni contesti particolarmente difficili “le cose cambino”, soprattutto per le donne e i bambini. Lo fa attraverso Grandmother Project – letteralmente “progetto nonna” – che opera per generare cambiamento in Africa attraverso la cultura e l‘empowerment.
Judi parlaci di te e di come sei arrivata, a un certo punto della tua vita, nel continente africano.
Sono nata negli Stati Uniti, in California, e mi sono laureata in Scienze Politiche con specializzazione sugli Affari dell’Africa, approfondendo sul terreno i miei studi in Costa d’Avorio come volontaria. Negli Stati Uniti ho continuato gli studi in Educazione, in seguito in Sanità Pubblica e infine ho presentato la mia tesi di dottorato di ricerca in Antropologia e Sanità.
Dal 1982 ho lavorato in Burundi per l’UNICEF, collaborando anche con una ONG americana che si occupava di emancipazione femminile. A partire da quel periodo ho iniziato diverse consulenze in altri paesi africani su programmi di sanità pubblica e problematiche delle donne a livello sociale e culturale, iniziando a condividere sempre di più l’idea che il vero sviluppo deve partire dai cambiamenti comunitari. Il mio lavoro consisteva inoltre in programmi di sanità materno-infantile e proprio in quell’ambito ho iniziato a capire come il ruolo delle “nonne” fosse fondamentale nella famiglia, nel villaggio, ma soprattutto come sostegno alle giovanissime madri.
Potresti spiegarci che ruolo hanno le donne, quali sono le loro condizioni famigliari e sociali e soprattutto perché le nonne sono così importanti in questo ambito?
Le donne in Africa sono i pilastri della società, in quanto fin da bambine devono occuparsi della famiglia “allargata” ovvero non solo dei figli e del marito, ma anche dei genitori, degli zii, dei cugini. Insomma, più che di famiglia in Africa si parla di comunità più o meno ampie che possono solo vagamente assomigliare al nostro concetto occidentale di famiglia.
Inoltre le donne si occupano del lavoro – spesso quello agricolo – della casa e dei figli, che in media sono circa 8. Questi bambini sono messi al mondo troppo spesso senza una vera volontà e molto presto, quando le donne sono ancora bambine, vengono messe incinta di forza da famigliari o abitanti dello stesso villaggio. Per questo motivo queste donne-bambine hanno bisogno dell’aiuto delle loro madri, che a loro volta hanno già vissuto il loro stesso calvario. È una visione olistica di come pensare alla famiglia e ai risvolti nella società. Il matriarcato è molto presente in Africa, per cui investire sulle donne significa investire sulla vera forza del cambiamento.
Tu e io abbiamo in comune un fattore importante e ovvero la comprensione della cultura e della società di alcuni paesi dell’Africa Sub-sahariana ed entrambe lavoriamo da anni su progetti di sviluppo. Cosa pensi dell’approccio della maggior parte delle organizzazioni internazionali a proposito dei programmi di sviluppo in Africa e più in generale nei paesi a basso reddito?
Da anni sono convinta che questo approccio non sia completamente corretto in quanto troppo sovente non tiene conto degli aspetti culturali e delle realtà sociali dei paesi in cui i programmi si svolgono. Per questo motivo il mio lavoro è sempre stato basato sulla formazione e l’educazione delle donne, in particolare delle nonne, per cercare di giungere a trasformazioni concrete che partano “dal basso” ovvero dalla popolazione stessa. A mio parere occorre lavorare con la cultura e creare un dialogo trasversale tra le tre generazioni di donne: le nonne, le figlie e le nipoti.
Raccontaci del tuo Grandmother Project.
Grandmother Project è nato quando andai a vivere in Senegal, dove conobbi mio marito. Nel 2005 fondai l’associazione negli Stati Uniti e nel 2008 in Senegal, riconosciuta come associazione umanitaria. In quegli anni le attività si svolsero soprattutto nella parte meridionale del paese, ma anche in altri come il Mali e la Mauritania. Fin da subito l’obiettivo fu quello di creare un dialogo con le comunità per cercare di cambiare alcune abitudini culturali come l’infibulazione, i matrimoni e i parti precoci.
Ciò comportava un coinvolgimento nei confronti degli anziani – nonne e nonni – dei leader tradizionali e di quelli religiosi. Il nostro lavoro si è basato anche sugli insegnamenti di Paulo Freire, uno dei grandi pedagogisti ed educatori del nostro tempo, che parlava di educazione come pratica della libertà. Negli anni Grandmother Project si è sviluppato attraverso formazioni e leadership programs per le nonne, che in questo modo si sentono prese in considerazione e addirittura vengono riconosciute come le chiavi di volta per il processo di cambiamento e di sviluppo della loro famiglia. Il coinvolgimento è di tipo trasversale, l’impatto su più di 120 villaggi e molti quartieri urbani.
Dal 2009 al 2020 il nostro progetto è stato valutato e riconosciuto dall’Università Cheik Anta Diop di Dakar, in collaborazione con la Georgetown University, per aver partecipato con grande impatto sul rafforzamento della comunicazione generazionale, che contribuisce a importanti cambiamenti sociali. Il professor Mohammadou Sall, dell’Università di Dakar, che ha partecipato alla valutazione del Grandmother Project, ha affermato che «è impressionante vedere come le nonne, una volta considerate le streghe del villaggio, siano diventate le vere leader e agenti del cambiamento».
Sono sempre più convinta che quello di Grandmother Project sia un modello che dovrebbe essere replicato in altri paesi africani, come ad esempio il Madagascar, dove svolgo la maggior parte delle mie attività umanitarie.
Infatti noi abbiamo iniziato anche dei corsi di formazione per altri paesi francofoni e sarebbe molto bello vedere la partecipazione anche del Madagascar. Il nostro concetto sposta in parte l’attenzione da girl-centered approach – approccio centrato sulle giovani donne – a grandmother-centered approach, cioè approccio centrato sulle nonne. Le nonne in realtà sono “i capi” naturali della famiglia e del villaggio. Offrendo loro l’educazione e la forza che meritano hanno il potere di rinforzare la solidarietà della comunità e attraverso il dialogo apportare cambiamenti alle norme sociali.
Infatti sono le nonne che praticano l’infibulazione alle nipoti, malgrado loro stesse ne abbiano sofferto da giovanissime. Lavorando con Grandmother Project abbiamo visto che con la formazione e l’educazione le nonne si rifiutano di far soffrire a vita le loro nipoti e di praticare l’infibulazione. Inoltre esiste una grande sorellanza tra nonne e nipoti, in quanto le madri in genere sono troppo impegnate tra il lavoro e il resto della famiglia, per cui le bambine si appoggiano più volentieri alle nonne, al loro affetto, ai loro consigli saggi, piuttosto che alle madri.
Com’è strutturata le vostra associazione e come trovate i fondi per la gestione?
Grandmother Project non è una grande organizzazione in quanto lavora con la popolazione locale e non ha bisogno di strutture nostre. In Senegal lavorano circa 11 persone che collaborano con le comunità. Dal 2008 abbiamo insegnato attraverso in più di 80 scuole con 240 docenti. Abbiamo cercato di trasmettere i valori culturali e le necessità di cambiamento e di dialogo a più di 10.000 bambini, 360 leader-nonne, 500 agenti comunitari. Infine, più di 2.500 madri, 4.000 ragazze e 1.500 ragazzi hanno beneficiato dei nostri programmi educativi.
Abbiamo creato una “guida”, pubblicata sul nostro sito, che spiega come svolgere il nostro lavoro anche in altre comunità e altri paesi. Speriamo veramente che il nostro progetto venga ripreso come modello in altri luoghi, dove ce n’è bisogno, e non solo in Africa. Mi auguro inoltre che la società civile a livello internazionale sia sensibile alle azioni proposte da Grandmother Project e che, a livello sia individuale che d’impresa o di organizzazioni, ci arrivino dei finanziamenti che ci aiutino a continuare la nostra opera.
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