Golfo Aranci: nell’area protetta di Capo Figari turisti, kayak e migliaia di pesci morti
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Sassari - Una moria di pesci può diventare un problema ambientale? Simili eventi vanno considerati alla stregua di un campanello d’allarme sulla salute dei nostri mari e sul futuro di un intero settore? Sono queste le domande che nascono da un’anomalia registrata in un allevamento di orate e spigole di Golfo Aranci lo scorso mese di settembre, quando fa ancora molto caldo e i bagnanti s’immergono a Cala Moresca, una delle più incantevoli calette galluresi. C’è anche chi, a Figarolo, pagaia alla ricerca dei delfini che abitano questo braccio di mare. In breve, a settembre in Gallura è ancora piena estate.
Lunedì 23 settembre, nell’allevamento Fattorie del Mare di Golfo Aranci, viene rilevata una moria di pesci che coinvolge un numero elevato di esemplari, quintali. La segnalazione alle autorità competenti è immediata: la Asl di Olbia si attiva per campionamenti e analisi, come da normativa; bisogna capire cosa ha provocato la morte per scongiurare problematiche attinenti alla sicurezza alimentare e ambientale. Il meccanismo non è dissimile da quello che si innesca quando tanti capi muoiono dentro un allevamento di ovini, suini o caprini.
Il principio infatti è sempre lo stesso: analizzare, abbattere e contenere il rischio legato al diffondersi dell’infezione o, più banalmente, «delle sostanze tossiche sprigionate dalle carcasse animali in decomposizione», spiega un esperto del settore che ha chiesto l’anonimato. In breve, occorre tutelare l’ecosistema e la fauna che potrebbe entrare in contatto con questi veleni, nonché con virus e batteri.
Un tema che non sfugge al Piano di gestione della Zona di protezione speciale (Zps) di Capo Figari, che insiste nei pressi di Golfo Aranci, tant’è vero che questo genere di impatti associati all’impianto di piscicoltura – che rientra in parte nella zona protetta – sono noti e tra questi vi è anche quello relativo agli scarti di pesce provenienti dalle gabbie. Insomma, se ci sono quantità rilevanti di pesci morti all’interno di un allevamento occorre velocizzarne lo smaltimento. Tuttavia, dalle parti di Golfo Aranci qualcosa è andato storto. Lo testimonia Ludovica Casavola, turista in visita a Golfo Aranci.
GOLFO ARANCI: SOLE, KAYAK E PESCI MORTI
«Il 27 settembre mi trovavo in compagnia di un’amica a Golfo Aranci per una gita in kayak. Siamo arrivate nella zona di Cala Moresca dove abbiamo notato dei pesci morti che galleggiavano e un odore strano. Siamo poi andate alla ricerca dei delfini che in genere si trovano nei pressi dell’allevamento. Lì c’era una schiuma bianca e puzzolente in acqua e abbiamo notato che in una delle vasche dell’allevamento c’erano tantissimi pesci morti che galleggiavano insieme a questa specie di schiuma oleosa. La mia amica ha poi chiamato la guardia costiera per segnalare. Alla fine del giro, il kayak era pieno di quella sostanza bianca».
La segnalazione alla Capitaneria di porto di Golfo Aranci va a segno, nel senso che i militari effettivamente escono per verificare quanto segnalato e appurano che la moria era stata già segnalata alle autorità competenti. Il punto è che quei pesci continuano a essere notati. I1 30 settembre un drone immortala la situazione all’interno delle vasche: i pesci morti sono ancora presenti con la sostanza bianca menzionata e descritta da Casavola.
Passano altri giorni: il 9 ottobre Cala Moresca è ancora piena di turisti che prendono il sole e fanno il bagno in uno scenario da favola. Siamo nel cuore dell’area Zps, è la stessa spiaggia da favola che il film La Sirenetta ha fatto conoscere al mondo, poco lontano dal punto in cui, sul promontorio di Capo Figari, Marconi sperimentò la trasmissione di radiocomunicazione a onde corte. Qualcosa però stona in questo scenario cristallino: la spiaggia è letteralmente cosparsa di palline più o meno grandi di una sostanza biancastra e oleosa. Si va dai pochi millimetri a diversi centimetri e si appiccicano ovunque. Nell’aria c’è un odore pungente di pesce.
NESSUN VIRUS O BATTERIO, MA SMALTIMENTO PARZIALE
Fortunatamente le analisi predisposte dall’azienda sanitaria locale hanno escluso il peggio. Gli esiti – arrivati introno al 6 ottobre, e cioè circa 15 giorni dopo la segnalazione dell’azienda – hanno stabilito che la moria dei pesci non è stata causata da virus o batteri, ma da scompenso metabolico. La causa più accreditata ha a che fare con le alte temperature delle acque. Va anche detto che non è la prima volta che viene registrata una moria all’interno degli allevamenti di piscicoltura, ma una simile anomalia non si era mai registrata a Golfo Aranci.
Benché non si possa parlare di cariche batteriche o virali disperse nell’ecosistema marino, rimane un problema associato alla permanenza in acqua del materiale putrescente. Il punto è che le carcasse sarebbero dovute essere prelevate e smaltite tempestivamente in base al principio di precauzione – anche verso lo stesso allevamento – come sancito dai regolamenti europei di riferimento e dalle numerose linee guida di settore, come quelle del’Istituto superiore per la ricerca ambientale (Ispra) e quelle dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie in collaborazione con l’Associazione Piscicoltori italiani.
Per quanto appreso da Indip, l’azienda in questione ha effettuato degli smaltimenti, ma complici un deposito di stoccaggio per i pesci morti poco capiente, un numero molto elevato di animali morti e la limitata disponibilità della stessa azienda di smaltimento, alla fine una parte degli animali è rimasta a mollo, decomponendosi e saponificandosi. Il tutto è stato poi reso più “visibile” anche dalle condizioni meteo-marine di fine settembre: un caldo incessante, pochissimo vento, zero pioggia e mareggiate. Il risultato è che il mare ha sì disgregato con il suo incessante lavorio le carcasse dei pesci e il loro grasso, ma di fatto le ha digerite pian piano.
UN CIMITERO A CIELO APERTO
Appurato che le analisi hanno scongiurato problemi di natura batterica o virale, rimane la questione delle carcasse dei pesci rimaste a mollo. D’altra parte regolamenti, linee guida e adesso anche un decreto legge prescrivono di eliminare il prima possibile i pesci morti da vasche e gabbie. La ragione ha a che fare con la biosicurezza per mantenere in salute l’allevamento e scongiurare qualsiasi tipo di infezione, ma non c’è solo questo aspetto da considerare.
Il processo naturale di deterioramento pone infatti dei problemi non secondari. «Certamente le carcasse dei pesci vanno prelevate dalle vasche anche per le sostanze tossiche sprigionate dalla decomposizione», spiega a Indip un esperto del settore che preferisce non comparire. E aggiunge: «Come accade in un allevamento terrestre, le carcasse vanno spostate e smaltite». Il problema è tanto più acuto quando si verificano morie di massa: in questi casi infatti l’impatto può essere significativo. Ecco perché tra le buone prassi vi è lo smaltimento tempestivo. Come non lasceremmo mai un cimitero pieno di cadaveri a cielo aperto, allo stesso modo ci si comporta in zootecnia e acquacoltura.
A titolo esemplificativo, tra le sostanze prodotte dal naturale processo di decomposizione ci sono il solfuro di idrogeno, il metano, gli acidi grassi volatili e composti fenolici. «Bisogna considerare anche il processo stesso della degradazione del grasso, che richiede ossigeno più una miriade di altri fattori. Senza analisi non si può dire di più, tranne che è buona prassi smaltire il più velocemente possibile le carcasse degli animali. Le morie possono accadere per diversi fattori, anche se si fa di tutto per evitarle», spiega il secondo esperto contattato da Indip.
Sullo sfondo di questa storia fatta di anomalie, segnalazioni, sostanze oleose e droni in volo, rimane l’acquacoltura. Un settore in espansione in tutto il mondo, studiato troppo poco rispetto alle sue implicazioni ambientali ed etiche. Un settore che però trova molto favore sia nelle istituzioni comunitarie, nazionali e regionali che in quelle internazionali. Che sia una soluzione al depauperamento dei mari o un problema ambientale ancora da indagare a fondo è tutto da vedere. Certo, a fare la differenza è una gestione attenta degli impianti, nonché dei fragili ecosistemi marini da cui questi vengono ospitati.
Puoi leggere l’inchiesta integrale di Angela Galimberti su Indip.
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