Stefano Davide Bettera: la risposta buddhista alle domande esistenziali è “non lo so”
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Giornalista, filosofo e scrittore, Stefano Davide Bettera è Presidente dell’Unione Buddhista Europea. Recentemente ha pubblicato per Solferino Secondo Natura – Critica dell’ideologia liberal-progressista, un testo che analizzando l’affermarsi del wokismo – da woke, ovvero “stare svegli”, usato per indicare l’attenzione ai temi sociali – in Occidente ne mette in luce la trasformazione da movimento di risveglio a ideologia intransigente e polarizzante. Un libro sulla libertà di espressione, sul rispetto dell’etica e della giustizia, sulla sacralità delle relazioni, ma soprattutto un invito a osservare la realtà con sguardo critico e uno sprone a essere coraggiosi, perché prendersi cura di tutto ciò che appare fragile e prezioso – come la cultura, il legame con la terra, la memoria, il rapporto, vero e profondo, con le persone – è oggi l’atto più sovversivo che ci sia.
Un testo «per nulla buddhista o anzi, totalmente buddhista», come lo definisce lo stesso Bettera. Gli abbiamo chiesto di spiegarci come l’approccio buddhista possa aiutare a interpretare la complessità del mondo in cui viviamo. Ne è nata una conversazione libera e spaziosa, una riflessione sulla necessità di orientare il futuro verso una nuova etica e uno stimolo a diventare veramente comunità.
In quale periodo della vita hai incontrato il buddhismo e in che modo è stato per te un elemento di trasformazione?
Ho incontrato il buddhismo per la prima volta da bambino, quando vidi dei monaci che frequentavano un centro vicino a casa mia, a Milano. Inizialmente ero solo curioso, ma negli anni dell’università iniziai a studiarlo seriamente. Non mi sono avvicinato al buddhismo per una crisi personale o per lasciare un’altra religione, né per vivere meglio. Da libertario impenitente quale sono, ciò che mi ha affascinato è stata la profonda libertà che offre e il suo approccio alla spiritualità che non implica un’accettazione passiva di dogmi e fedi. È un cammino che ti permette di affrontare la dimensione assoluta e trascendente con responsabilità individuale. E lo fa come una religione.
In che modo?
Il Buddha si interroga sul senso ultimo dell’esistenza. La sua domanda è: che ci faccio io qui e perché sono qui? E che cosa accade qui? La risposta che si dà – o che non si dà – è una risposta totalmente religiosa, nel senso di dimensione ultima dell’esistenza. Nel momento in cui ti poni questa domanda, la migliore cosa che puoi fare è dire “non lo so” e in quel “non lo so” c’è la risposta religiosa buddhista, che infatti non risponde a nulla. Perché non lo fa? Perché, come giustamente diceva Raimon Panikkar, il buddhismo è una mistica radicale, ovvero non risponde a una domanda poiché la domanda è irrilevante. Il Buddha dice: preoccupati di vivere qui.
È questo il tema. Nel momento in cui tu vivi qui, vivi nell’assoluto. È lì che tu capisci la forza trasformativa del buddhismo. Il buddhismo ti richiede un cambio non solo nel comportamento quotidiano, per cui diventi più consapevole di tutto ciò che accade dentro e fuori di te, ma ti spinge anche a guardare all’esistenza da un’altra prospettiva, che è dentro e fuori l’esistenza contemporaneamente. E quella dimensione è totalmente religiosa.
Tu consigli però di non definirsi buddhista, perché?
Non è una questione di etichette. Il buddhismo non significa che se prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha e se ritengo che le quattro Nobili Verità siano l’elemento di spiegazione dell’esistenza allora sono buddhista. No, il buddhismo è un invito a esplorare. Il Buddha dice: “Ho capito che funziona così, ma sta a te vedere come”. Questo rende il buddhismo una via pratica e personale, più che un’identità religiosa da indossare.
In Occidente c’è molta confusione sul rapporto tra buddhismo e meditazione. Per quale motivo?
C’è questa idea che se faccio venti minuti di meditazione al giorno allora sono buddhista. Non è così. La meditazione non è un culto e non è nemmeno il fine del buddhismo. La meditazione è solo una delle strade che il Buddha offre per spezzare il ciclo della sofferenza. Qui in Occidente abbiamo deciso di ignorare le altre – contenute nell’Ottuplice Sentiero – e di focalizzarci solo su questa. La diffusione della mindfulness è proprio lo specchio di questo.
Perché?
La mindfulness è stata completamente fraintesa. È diventata un esercizio di controllo e di potere, separato dalla sua dimensione etica. Il buddhismo non è solo meditazione: l’etica è il fondamento del percorso. Senza un impegno morale, la meditazione rischia di essere sterile o peggio controproducente. Trovo inoltre che sia molto pericoloso delegare la spiritualità e aspettarsi che faccia il lavoro che dovrebbero fare altri, come gli psicologi o gli psichiatri. In alcuni casi infatti la meditazione rischia di essere un danno micidiale se non è inserita in un percorso di maturazione interiore. Ma in un sistema come il nostro è molto più semplice diffondere la meditazione che l’etica.
L’etica è un tema centrale nel tuo libro. In che modo secondo te il buddhismo può aiutare a orientarsi e a navigare nella complessità del presente?
Il buddhismo offre tre chiavi fondamentali per farlo: l’equanimità, che aiuta a non a non assumere posizioni fortemente ideologiche; il concetto di “non sé”, che ci insegna a non proiettare sulla realtà le nostre convinzioni personali; e l’interdipendenza, che ci aiuta a vedere la connessione tra fenomeni complessi e la connessione profonda tra tutti gli esseri viventi. C’è poi il concetto di impermanenza, che concependo una realtà impermanente, quindi fragile, offre uno strumento molto utile per leggere la precarietà della vita e la mutevolezza della realtà.
In generale comunque il buddhismo non offre risposte definitive, ma strumenti per navigare nella complessità con consapevolezza. È un punto fondamentale, perché più ci incaponiamo a ridurre in una scatolina la complessità, più imbocchiamo una strada cieca. La complessità è molto più complessa di quella scatolina lì. Dunque non ci resta che stare in questa complessità, semplicemente stare.
Questa incapacità di stare nella complessità è anche alla base di fenomeni come il wokismo?
Esattamente. Per esempio l’esaltazione di tante micro identità è la risposta all’incapacità di stare nella complessità. È un modo per alzare muri, creare divisioni. Tutti noi abbiamo delle radici, veniamo da una tradizione culturale, veniamo da percorsi che ci fanno diventare ciò che siamo. Pensare di poter cancellare tutto questo è un’illusione.
C’è anche questo pensiero che le democrazie liberali siano le uniche a garantire maggiormente i diritti e che tutte le civiltà passate siano state classiste, omofobe, razziste e incapaci di produrre qualunque tipo di etica, qualunque tipo di valore. Non è vero, sappiamo che non è così. Si parla tanto di difendere i diritti, ma di quali diritti parliamo? Ci stiamo concentrando sui diritti civili perdendo completamente di vista i diritti sociali. E questo porta le persone a orientare il proprio voto con la pancia, come nel caso degli Stati Uniti.
Quali vie d’uscita proponi nel tuo libro?
Innanzitutto è necessario recuperare il senso del dialogo vero, dall’approfondimento e della comunità. Non una comunità rivendicativa, che promuove la divisione, bensì una comunità realmente inclusiva, che educhi su come relazionarsi al diverso serenamente. Una comunità che offra gli strumenti per stare dentro alla complessità, strumenti di cultura, strumenti di lettura. Una comunità fondata sulla cura. La cura dell’essere, come la chiamava Heidegger. Una cura come impegno etico per costruire una società migliore.
In Una teoria della giustizia, John Rawls diceva una cosa importantissima, ovvero che serve una teoria della giustizia per avere un mondo più equo e più giusto. Dobbiamo capire che è giusto agire per un mondo più giusto. E qui torniamo al buddhismo e alla sua etica. L’etica è fondamentale perché è uno spartiacque per creare un mondo più giusto. Infine un elemento che mi piace molto sottolineare è la necessità di tornare a renderci conto della bellezza della vita, invece che puntare sempre il dito su ciò che non funziona e quindi creare un mondo di nemici e di cattivi.
Anche il progresso necessità di un’etica?
Il vero progresso è quello che consente a tutta l’umanità di fare dei passi evolutivi. Mi verrebbe da dire però che il progresso non è nemmeno una scelta. È insito nella nostra natura: è il movimento continuo da una condizione all’altra. Ma è anche fondamentale che il progresso sia accompagnato da un’etica che ci permetta di relazionarci alla complessità del nostro tempo. Questo vale anche per l’intelligenza artificiale: com’era successo con la carta stampata, con internet e con l’avvento dei computer, in tanti stanno gridando alla catastrofe. Ma l’intelligenza artificiale non è una minaccia, è semplicemente uno strumento che dobbiamo imparare a gestire in modo responsabile. Quando il buddhismo parla di impermanenza, di fatto sta parlando di progresso.
Quali sono le principali attività dell’Unione Buddhista Europea?
Ci occupiamo di rappresentanza istituzionale presso il Parlamento Europeo, il Consiglio d’Europa e altre istituzioni. È un lavoro politico nel senso più alto del termine, che ha l’obiettivo di creare connessioni e rappresentare le istanze delle comunità buddhiste in Europa. Si tratta di un lavoro di raccordo con le varie anime buddhiste e le varie unioni nazionali sparse sul territorio europeo, insieme a un lavoro di dialogo con le altre grandi confessioni religiose europee con cui intratteniamo rapporti molto stretti, anche di progettazione comune su temi come quelli della sicurezza dei luoghi di culto, del rispetto dei diritti religiosi, del rispetto dei diritti delle comunità straniere. Scherzando, mi definisco un po’ un ambasciatore del buddhismo presso le corti europee.
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