Esiste davvero la “famiglia naturale”? L’etologia dice di no
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Si sente sempre più spesso parlare di famiglia convenzionale, tradizionale… famiglia naturale. Ma la famiglia naturale cos’è? Cosa si intende per natura, quando parliamo di famiglia? Cosa non è naturale e cosa lo è invece? Per rispondere a questa domanda non possiamo che andare a osservare quello che succede negli altri animali, nelle altre specie, dove senza troppi problemi culturali, religiosi e politici, gli animali creano famiglie delle più disparate. Laddove il giudizio cessa di esistere allora ecco che l’etologia ci aiuta a comprendere in modo approfondito che non esistono famiglie innaturali, nemmeno nell’essere umano!
Ci sono i falchi pellegrini che, un po’ come molte famiglie umane occidentali “tradizionali”, formano legami di coppia monogami – ovvero con un solo partner alla volta – che spesso durano per molte stagioni riproduttive. Sia i maschi che le femmine hanno un forte attaccamento ai precedenti siti di nidificazione ed entrambi i genitori incubano le uova e si prendono cura dei piccoli. Così come i lupi, in cui una coppia riproduttrice è a capo di un branco per lo più composto da membri della famiglia che seguono i genitori e apprendono da loro.
Anche i gibboni sono monogami: proprio come avviene per l’essere umano, i piccoli si aggrappano costantemente alla pancia della madre per i primi 3-4 mesi di vita e queste li allattano fino a quando i giovani hanno circa due anni. I maschi assistono nella cura dei piccoli aiutando a difenderli e talvolta accarezzandoli, giocando con loro o trasportandoli mentre i fratelli più grandi possono anche aiutare ad allevare i fratelli più piccoli. I gibboni si prendono il loro tempo nella scelta di un compagno e di solito, se il compagno muore, l’altro non cerca un sostituto.
E se questi tipi di famiglia ci ricordano quelle “convenzionali” – rispetto a quali convenzioni, poi? – dell’essere umano, ce ne sono molte altre che di “tradizionale” non hanno nulla e sconvolgono la nostra idea di famiglia naturale. Pensiamo per esempio agli scimpanzé, in questa specie sia i maschi che le femmine si accoppiano con più partner e possono quindi essere considerati poliginandri. Tuttavia, a volte un maschio può controllare l’accesso sessuale a una femmina, impedendo ad altri maschi di accoppiarsi con lei.
Gli studi della famosa primatologa Jane Goodall avevano dimostrato che negli scimpanzé la copulazione può svolgere una serie di funzioni sociali. Sia le femmine che i maschi infatti si accoppiano più spesso di quanto sarebbe necessario per garantire la fecondazione. La copulazione può aiutare a sviluppare legami sociali e può funzionare per stabilire e mantenere l’unità di gruppo. Un po’ come anche negli esseri umani, negli scimpanzè c’è un periodo prolungato di dipendenza giovanile durante il quale la prole fa affidamento sulla madre per il latte, la protezione e l’educazione. A causa delle impegnative cure richieste da un singolo figlio, le femmine non possono produrre prole frequentemente.
Come è vero per la maggior parte dei mammiferi, le femmine forniscono la maggior parte delle cure parentali e i piccoli dipendono completamente dalla madre fino allo svezzamento a 3 o 4 anni, ma continuano a vivere con lei e fanno molto affidamento sulla sua figura fino a quando non raggiungono l’età adulta. Infatti i legami con la madre si estendono per tutta la vita di un individuo. I maschi di scimpanzé invece non investono energie e risorse nelle cure parentali.
Cosa ben diversa avviene nel tamarino imperatore: i gruppi familiari di tamarini sono composti da diversi membri sessualmente maturi, in particolare da due maschi adulti. In questa specie di primate, oltre ad aiutare alla nascita, entrambi i maschi del gruppo aiutano ad allevare i membri più giovani e i membri più giovani fungono da “baby sitter”. Il padre – ma di solito entrambi i maschi del gruppo, poiché il padre biologico non può essere determinato con esattezza – riceve il piccolo alla fine del parto e lo lava, iniziando a prendersene cura. La madre allatta il piccolo ogni 2/3 ore per circa mezz’ora ogni volta, dopodiché lo restituisce al padre.
Proprio come nei pinguini imperatori, in cui le coppie di papà pinguino sono diffusissime. Sono circa 20 le specie di questi pennuti e la maggior parte di queste presenta il 10-20% di coppie omosessuali. I pinguini imperatori, sia in natura che in cattività, adottano uova abbandonate da coppie etero e si dimostrano premurosi, allevando il piccolo con successo fino alla sua completa indipendenza. Una volta formata la coppia, i due maschi sembrano essere inseparabili.
E l’omosessualità sociale la troviamo anche nel cigno nero. Basti pensare che un quarto delle coppie di cigno nero è costituito da due papà. Ovviamente i maschi non depongono le uova, quindi si accoppiano con una femmina, aspettano che sia lei a deporle e a quel punto la abbandonano, scegliendo un maschio con cui crescere la prole. E, a quanto pare, questi padri sono bravissimi e ai loro pulcini non fanno mancare proprio nulla. Tanto che il loro successo riproduttivo, secondo diversi studi, è persino maggiore di quello delle coppie eterosessuali.
Esattamente come gli albatros: secondo le ultime ricerche infatti, il 31% delle coppie è costituito da due femmine, che covano e allevano insieme un pulcino all’anno. Il loro legame dura una vita intera e a deporre l’uovo fanno a turno: una volta il pulcino sarà geneticamente figlio di una sola mamma e sarà adottato dall’altra. La volta dopo faranno al contrario.
Per albatros, pinguini e cigni parliamo di comportamenti omosessuali sociali e di cure parentali. Se parliamo di comportamenti omosessuali, nel sesso, possiamo prendere come esempio i bonobo, in cui il sesso omosessuale e quello eterosessuale vengono utilizzati come collante sociale per risolvere conflitti e rafforzare i rapporti all’interno del gruppo. A livello evolutivo tra i benefici indiretti del comportamento omosessuale femminile c’è infatti il rafforzamento dei legami sociali e delle alleanze in modo da avere una priorità di accesso alle risorse. Fra i benefici diretti del comportamento eterosessuale c’è invece una maggiore probabilità dei maschi di fecondare le femmine.
Anche in questo caso l’etologia ci aiuta a comprendere che nell’omosessualità e nell’adozione dei piccoli non c’è nulla di innaturale. E se crediamo ancora che le adozioni siano qualcosa di “innaturale”, pensiamo allora ai leoni, ad esempio, in cui le compagne di branco spesso partoriscono in modo sincrono. Le madri di cuccioli di età simile formano un “asilo” e rimangono insieme per 1-2 anni. Le femmine spesso allattano i cuccioli l’una dell’altra, in un mutuo aiuto che non può che dare benefici alla specie.
Lo stesso avviene negli scimpanzé, in cui le adozioni però, sorprendendo tutti, non sono a carico delle femmine, ma dei maschi. È stato osservato che circa la metà degli individui orfani muore o cresce con notevoli ritardi nello sviluppo fisico e relazionale, l’altra metà ha la fortuna di essere adottata e oltre il 50% delle adozioni è a carico di maschi adulti e non di femmine, probabilmente maggiormente assorbite da una genitorialità biologica. Alcuni di questi padri adottivi si sono resi protagonisti di questo “gesto altruista” più volte nella loro vita.
Ci sono davvero famiglie meno famiglie di altre? Le madri orche che crescono da sole i loro piccoli sono più madri di altre? I padri cavallucci marini che partoriscono centinaia di avannotti sono meno naturali di padri che invece per esigenze di specie non possono prendersi cura dei piccoli? E le più di 1500 specie di animali in cui è presente l’omosessualità, sono meno naturali di quelle monogame ed eterosessuali? Ancora una volta, osservare gli altri animali ci aiuta a scendere dal piedistallo della nostra arroganza umana e chissà che non ci serva per annullare i pregiudizi infondati sul nostro modo di amare e crescere i nostri piccoli.
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