6 Dic 2024

Abbigliamento e accessori cruelty free: ecco alcuni consigli

Scritto da: Chiara Grasso

Profumi, scarpe, perle, sete, pennelli. Tutti questi accessori sfruttano gli animali e provocano sofferenza. Ma spesso esistono alternative sostenibili. L'etologa Chiara Grasso ce ne illustra alcune.

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In un precedente articolo vi ho parlato elle indicibili sofferenze a cui vanno incontro ogni giorno migliaia di esseri viventi coinvolti della produzione di capi d’abbigliamento realizzati con materie prime di derivazione animale. Ci siamo concentrati sulle pellicce, ma sono molti i prodotti che la cui realizzazione implica maltrattamenti, dolore e spesso addirittura morte. Per fortuna sono molte anche le alternative cruelty free, ovvero “senza crudeltà” nei confronti degli animali e della natura in generale.

Quello che spaventa è che spesso non ci rendiamo conto che l’abuso sugli altri animali – già, altri, perché troppo spesso dimentichiamo che anche noi esseri umani apparteniamo al regno animale – si cela anche dietro molti prodotti che noi non consideravamo nemmeno “di origine animale” e invece lo sono eccome. Per esempio, forse non tutti sanno che in molti profumi è contenuta l’ambra grigia, che di ambra non ha nulla: è la cacca del capodoglio.

I PROFUMI

L’ambra grigia contiene un particolare alcol, chiamato ambreina, che funziona come fissativo, cioè permette al profumo di odorare più a lungo. Si tratta di un materiale raro che, a seconda delle stime, viene prodotto dall’1% circa di tutti i capodogli: ecco perché è così prezioso per i profumi pregiati. Peccato che questo componente sia spesso procurato uccidendo il cetaceo, illegalmente poiché questa specie è protetta quasi ovunque nel mondo. Il capodoglio infatti mangia grandi quantità di calamari, il cui duro becco è molto difficile da digerire. Solitamente queste parti vengono vomitate dall’animale ma, in rari casi, possono raggiungere l’intestino.

cruelty free

Secondo alcune ipotesi, i becchi non digeriti una volta raggiunto il tratto intestinale dell’animale creano un “tappo”. Qui la materia fecale si accumula attorno a questo blocco e lo fa crescere di dimensione, fino a provocare addirittura la lacerazione dell’intestino e la morte del capodoglio. In questo caso l’ambra grigia viene quindi rilasciata in mare. Qui inizierà galleggiare e alla fine arriverà sulle coste, dove potrà essere raccolta. In alcuni Paesi del mondo questo business è illegale proprio perché sono stati riportati casi di animali appositamente uccisi per cercarla. Incredibile pensare che indossiamo feci di capodoglio morto come profumo.

PERLA, MADREPERLA E PERLE CRUELTY FREE

Così come le perle, che tanto sono spesso sinonimo di ricchezza ed eleganza. In realtà esse sono essenzialmente formazioni che si sviluppano all’interno di alcuni molluschi, in particolare le ostriche, come reazione a un corpo estraneo o irritante. Questo processo, che in natura avviene raramente, è stato “industrializzato” attraverso l’inserimento manuale di un irritante all’interno dell’ostrica, che la induce a produrre madreperla, la sostanza brillante che forma la perla. Questo processo, oltre a essere innaturale, è stressante per l’ostrica e può portare alla sua morte. Le alternative ci sono: le perle sintetiche e finte, che in realtà sono molto più preziose di quelle vere se pensiamo allo sfruttamento dell’animale per la produzione delle stesse. 

I PENNELLI E L’OPERAZIONE CLEAN ART

E se vi dicessi che anche l’arte nasconde bracconaggio e sofferenza? Molti pittori e truccatori infatti usano i pennelli Kolinsky perché morbidi e precisi. Ma quanti sanno che sono fatti con code di donnole siberiane maschi, che si trovano nelle foreste di Russia e nord della Cina? Pensate che per ogni chilogrammo di peli utilizzati per la fabbricazione dei pennelli, vengono uccise 50 donnole. Nel 2019 l’ufficio di controllo del crimine sulla fauna selvatica del governo indiano, il WCCB, ha portando avanti l’operazione Clean Art con lo scopo di porre fine al commercio di pennelli creati con peli di questi animali in favore di alternative cruelty free.

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Protesta della LAV contro gli allevamenti di visoni

«Stiamo facendo del nostro meglio per interrompere la rete di fornitura e produzione – ha dichiarato HV Girisha, vicedirettore regionale WCCB –, ma sfortunatamente la consapevolezza di questo crimine è bassa e fino a quando c’è una domanda ci saranno persone che uccideranno le donnole per la loro pelliccia». Secondo i conservazionisti infatti sono più di un milione le pelli di questi animali commercializzate: un numero che la specie selvatica non si può permettere e che a questo ritmo presto la condurrà a essere minacciata d’estinzione.

Spesso per ingannare gli acquirenti i pennelli non Kolinsky sono privi di etichetta o etichettati in modo errato. A volte sono venduti come peli di zibellino pur provenendo da visoni o donnole, considerati in via di estinzione. I peli di “cammello” possono provenire da scoiattoli, capre o una combinazione di animali diversi. I peli di bue vengono strappati dalle orecchie e quelli di pony possono essere presi dalla schiena o dalla criniera dei cavalli. L’unica soluzione è scegliere le alternative cruelty free vegetali o sintetiche. Non esiste una pelliccia più etica di un’altra: nessun animale è meno animale di un altro e continuare a utilizzare peli di animali per i nostri quadri o il nostro make-up nel 2024 è inammissibile. 

LA PELLE VERA E PELLE CRUELTY FREE

La pelle e il cuoio sono tra i prodotti che acquistiamo più comunemente tra borse, scarpe e giubbotti, ma anche divani e poltrone per le nostre case. Molta della pelle in commercio proviene da scarti alimentari dell’animale macellato ed è così che la pelle viene recuperata e venduta per subire il processo di lavorazione. C’è poi l’industria della pelle vera e propria, quella che non è più uno scarto ma che proviene da animali allevati per questo preciso scopo.

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PRotesta della PETA a New York (foto di Brittainy Newman/Brittainy Newman)

Spesso la pelle dei vestiti Made in China proviene da pecore, cani e gatti allevati per essere uccisi e scuoiati. In Asia non ci sono regole che stabiliscono procedure severe e rigide e quegli animali sono merce a tutti gli effetti, quindi più simili a oggetti che a esseri viventi. Per questo motivo essi si ritrovano in balia di industrie interessate soltanto alla quantità di lavoro da portare avanti e profitto da trarre.

La vendita della pelle rappresenta la metà dei profitti dei mattatoi che macellano bovini: non è dunque un sottoprodotto, ma un prodotto che sta quasi sullo stesso piano di quello principale. La produzione di pelle ha un giro d’affari diretto che vale 50 miliardi di dollari all’anno ed è intimamente legata all’industria della carne rossa. Fra l’altro bisogna fare attenzione all’ecopelle, che è solo una pelle trattata e prodotta con metodi ecologici, ma è pur sempre una pelle animale. Per cui scegliere l’ecopelle credendo sia un’alternativa cruelty free è un inganno in cui ci hanno fatto cadere per decenni. Per approfondire vedi il rapporto del Centro Nuovo Modello di Sviluppo.

LANA E DI PECORA E… DI CANE

Anche la lana è un prodotto poco etico in molti casi. Sebbene non comporti l’uccisione dell’animale, la tosatura delle pecore al fine di ricavarne la lana non è una pratica “naturale” come vuol far credere l’industria dell’abbigliamento. Le pecore naturalmente non produrrebbero così tanta lana, che d’altra parte se non fosse tagliata provocherebbe colpi di calore, infezioni e in alcuni casi la morte. Attraverso l’allevamento selettivo infatti gli animali vengono manipolati per produrre quantità eccessive di lana, gravando sui loro corpi e impedendo la loro mobilità.

Invece di acquistare nuovo, la scelta più etica e giusta per l’ambiente è quella di scegliere prodotti di seconda mano

Questa ricerca del profitto va a scapito del benessere degli animali stessi, poiché per la produzione di lana le pecore sono confinate in recinti stretti e affollati e spesso sono addirittura impossibilitate a camminare nella terra e nell’erba per evitare di sporcarsi. In alcuni casi hanno dei sacchetti legati al fondoschiena in modo da defecare dentro i sacchetti così da non sporcare la lana che dovrà essere utilizzata.

La pratica di tosatura inoltre è una tortura per la pecora, che deve essere tenuta ferma per diversi minuti mentre la lana viene rasata con un rasoio. Spesso l’animale viene sbattuto a terra e la testa viene immobilizzata dal ginocchio dell’operatore e in alcuni casi non si risparmiano percosse e bastonate. La velocità della tosatura provoca anche lesioni e ferite all’animale che non può ribellarsi. La situazione degli agnelli nell’industria della lana è altrettanto tragica. Fin dalla nascita, sono sottoposti a una serie di procedure dolorose e barbare volte a massimizzare l’efficienza e la redditività: il taglio della coda, la perforazione delle orecchie e la castrazione senza sollievo dal dolore sono pratiche comuni.

Le diffusissime pecore merino sono allevate in Australia e vengono selezionate affinché abbiano la pelle rugosissima per produrre una maggior quantità di lana. La lana in eccesso e la pelle rugosa creano un peso innaturale sugli animali, impedendo la loro capacità di regolare efficacemente la temperatura corporea. Inoltre le rughe raccolgono umidità e urina, creando un terreno fertile per le mosche. Per questo le pecore merino sono sottoposte senza anestesia alla crudele pratica chirurgica del mulesing, ovvero l’asportazione di una parte di pelle della zona perianale a scopo di difesa dalle larve di insetti.

Ma anche per la lana un’alternativa c’è. Anzi ce ne sono due: una è acquistare e scegliere la lana rigenerata, quindi lana di seconda mano che viene riutilizzata per creare nuovi capi. L’altra alternativa è davvero innovativa: la lana… del proprio cane. Proprio così, è pazzesco e geniale! La creatrice di questo progetto fantastico, Giulia Alberti, mi ha raccontato che lei e suo marito hanno imparato a filare grazie ad Asaki, un Akita Inu anziano che hanno adottato dal canile tanti anni fa ed è stato con loro pochi mesi, «giusto il tempo di stravolgerci la vita».

«Facevamo altri lavori e filato il suo pelo per gioco nel 2011 ci siamo ritrovati ad avere richieste da tutta Italia. Poi abbiamo filato per dieci anni solo a mano con gli attrezzi che oggi compongono il nostro museo – un angolo è dedicato ad Asaki – e nel 2020 abbiamo fatto la follia dell’impianto di filatura, comprato in Canada e finanziato da Banca Etica». Lana di cane è un servizio che viene fatto solo su commissione dei proprietari: si raccoglie il pelo in uno scatolone e lo si spedisce, insieme a una foto e al nome del cane, per poi confezionare i gomitoli. Un’alternativa sostenibile, etica, innovativa ed estremamente più dolce rispetto alla lana di pecora, spesso sporca di sangue e dolore.

SETA

Anche per la seta, leggera, fresca e usata dalla notte dei tempi purtroppo l’industrializzazione ha creato sofferenza. Pensate che per fare un chilo di seta devono essere uccisi dai 2000 ai 3000 bachi. Perché? Appena prima della fase di metamorfosi in cui i bachi da seta si trasformano in farfalle, questi filano delle fibre per creare i loro bozzoli. Una volta che la trasformazione è completata, per uscire dal bozzolo la falena lo deve masticare, ma questo naturale processo comporta una perdita per l’industria manifatturiera. Per questo i bachi vengono immersi ancora vivi in acqua bollente, morendo.

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Ma l’alternativa cruelty free anche qui c’è: si chiama The Peace Silk, progetto lanciato da Monica Biamonte. «Nel procedimento della peace silk si lasciano sfarfallare – cioè uscire dal bozzolo – tutte le falene. Certo, il filo di seta purtroppo verrà inevitabilmente spezzato, ma si può comunque lavorare, anche se in diverso modo, e poi filare come tutte le altre fibre corte. Il filo che ne risulterà sarà più spesso e disomogeneo, sicuramente meno lucido, ma comunque prezioso. E senza crudeltà» aveva affermato Monica in un’intervista a Italia che Cambia.

Per concludere, che sia un foulard in seta, un maglione in lana, un divano in pelle, una scarpa da calcetto, una borsa, un cappotto, un profumo o un pennello, controlliamo sempre con cura il materiale con cui è stato prodotto ciò che vogliamo portare a casa. E come sempre, invece di acquistare nuovo, la scelta più etica e giusta per l’ambiente è quella di scegliere prodotti di seconda mano, in modo da contrastare il consumismo, la produzione eccessiva, lo sfruttamento di risorse e manodopera e l’inquinamento dell’industria tessile. Un’Italia che cambia è possibile. E noi siamo gli attori di questo cambiamento, se lo vogliamo.

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