9 Dic 2024

E se la soluzione ai problemi dell’abitare fosse un nuovo tipo di social housing?

Scritto da: Valentina D'Amora

Il social housing è un modello pensato per offrire abitazioni accessibili a tutti, soprattutto ai soggetti più fragili e in difficoltà economica. I cambiamenti in corso nella nostra società però ci spingono a ripensare questo modello. Un workshop a Genova ha provato a fare proprio questo e noi ci siamo stati

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Genova - Possiamo creare un modello di social housing nuovo e replicabile, rendendolo più adatto alle esigenze contemporanee? Lo scorso martedì, il 3 dicembre, al MUCE – Museo della Certosa di Genova un denso gruppo di persone ha provato a declinare questo concetto da svariate prospettive durante il workshop di co-design organizzato da MeWe – Abitare collaborativo, un’impresa sociale dedicata a soluzioni innovative per il cohousing – ve li abbiamo presentati qui.

Io e il mio collega Andrea Degl’Innocenti ci siamo stati: è stata una giornata stimolante in cui tante realtà, liguri e non, che si occupano di abitare hanno cercato di sviluppare un nuovo modello di social housing, promuovendo soluzioni per l’edilizia sociale e l’abitare collaborativo, includendo accoglienza temporanea, percorsi di autonomia abitativa, interventi edilizi e supporto trasversale, sia sociale che legale, ma anche psicologico e lavorativo.

IL METODO DI LAVORO

L’interattività, punto cardine del co-design – approccio che coinvolge un gruppo di stakeholder, ossia i portatori di interesse, nella fase di generazione delle idee e di progettazione – ha permesso ai presenti di esplorare il tema da un’angolazione differente, il tutto con un valore aggiunto: la facilitazione. «Per noi il co-design è uno degli strumenti essenziali di ideazione partecipata, dove si mettono insieme più competenze, con soggetti anche esterni all’impresa che possono portare uno sguardo “esotico”», spiega Armando Bevilacqua, project manager di HumanTech – EntopanInnovation.

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Uno dei tavoli di lavoro

Si tratta di uno strumento effettivamente utile per identificare in modo netto la sfida d’innovazione che si sta per affrontare con una consapevolezza condivisa: «Si porta all’attenzione di tutti la domanda che ci si pone insieme, si definiscono poi tutte le ipotesi su come risolverla e si mette su un piano di sviluppo».

Se è vero che il co-design all’estero ha attecchito da molto più tempo, oggi sta dimostrando il proprio valore anche in Italia perché, come evidenziato da Bevilacqua, è una modalità di lavoro che permette di dare struttura all’approccio creativo e consente di farsi le domande giuste una alla volta, prototipando su carta, facendo emergere le criticità per procedere insieme lungo il percorso. «E poi, aspetto fondamentale, a fine giornata si va via con un’idea condivisa».

L’INCONTRO

In una società in cambiamento, dove la casa non è più un diritto scontato ormai quasi per nessuno, emergono nuove fasce di persone “fragili”: ecco perché dobbiamo ripensare le politiche abitative sociali in modo più diffuso e adattabile a esigenze diverse fra loro. «Pensiamo che la risposta alle situazioni di disagio abitativo e socio-economico necessitino di azioni capaci di abbinare all’intervento sulla casa l’erogazione di servizi integrativi o di supporto all’abitare», hanno sottolineato a inizio giornata Lucio Massardo e Natalia Ardoino, rispettivamente amministratore e ideatrice di MeWe. Per questo l’oggetto della riflessione dell’intero workshop è stato proprio incentrato sulla dimensione del “fare”, studiando nuove opportunità abitative e strategie per colmare il gap di offerta rispetto alla domanda di abitare sociale riscontrata sul proprio territorio.

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Alcune delle carte utilizzate nel co-design

«Volevamo capire se e come, insieme ad altri potenziali alleati, possiamo pensare di fare di più e meglio di quel che facciamo oggi in termini di interventi e di servizi alla persona. La casa non risolve quasi mai da sola il problema di una persona vulnerabile: questa infatti porta con sé problemi lavorativi che richiedono supporto, problemi di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, problemi di salute o di raggiungimento/mantenimento della vita indipendente, problemi di isolamento e marginalità sociale», evidenzia Natalia.

E proprio concentrandosi sull’azione ecco scoccare la magia: sui quattro tavoli di lavoro si sono generate nuove alleanze, si è realizzata l’importanza della flessibilità, per proporre modelli abitativi elastici ed adattabili al contesto geografico e sociale di riferimento. “Sartorialità” è stata la parola chiave emersa spesso dai diversi gruppi.

Pensando a tutte queste soluzioni pratiche per il social housing, viene da fare un passo indietro e chiedersi come agire al presente per ricreare comunità. Secondo Flaviano Zandonai, Open innovation manager del Consorzio CGM, quello che occorre oggi «è la capacità di relazione, la gestione del conflitto e il saper armonizzare le diverse posizioni per rieducarci a stare in comunità. È sicuramente un lavoro di lungo periodo, complicato e controverso, che però bisogna portare avanti». E questa giornata è stata una piccola palestra in merito.

L’idea è dare vita a un’agenzia capace di anticipare le dinamiche del mercato sottraendo pezzi di città, piccoli e grandi, alle dinamiche speculative e di profitto

Lucia Nerione, presidente della cooperativa Il sentiero di Arianna, ha puntato molto su valori come coesione, condivisione e cura. «L’abitare è una questione ci riguarda in prima persona e dev’essere qualcosa in cui la comunità si deve sentire corresponsabile tutta». Legato poi al tema ambientale, ritorna una declinazione del concetto di riuso: «Il tema della condivisione può riattivare la dimensione partecipativa della collettività, mi vengono in mente le comunità energetiche ad esempio che, spinti anche dall’idea del risparmio economico fungono molto da strumenti aggregativi».

I RISULTATI

Cosa è emerso a fine giornata? Secondo Natalia, «la sensazione è che ci siano le condizioni per pensare a una sorta di Agenzia Sociale per la Casa 2.0, specializzata nell’offerta di abitare in locazione temporaneo o permanente, capace di sfruttare le opportunità dell’art.11, comma 3 della legge 431/98 attraverso il reperimento e la riqualificazione di alloggi per attivare un canale alternativo al mercato immobiliare for profit».

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Il gruppo di lavoro

L’idea quindi è dare vita a un’agenzia capace di anticipare le dinamiche del mercato sottraendo pezzi di città, piccoli e grandi, alle dinamiche speculative e di profitto e trattandoli come strumenti di welfare allargato. «La immaginiamo un’agenzia 2.0 perché quelle attuali, nel loro insuccesso, si sono limitate a svolgere il ruolo di intermediario, inseguendo il mercato immobiliare “solito”, con un dispendio di energie e costi insostenibile», aggiunge la cofondatrice di MEWE.

E visto che la stella polare del workshop è stato proprio il concetto di riuso, si è ipotizzato di dare nuova veste al patrimonio immobiliare già esistente, senza nuovo consumo di suolo. Tra le ipotesi progettuali hanno fatto capolino la realizzazione di un cohousing diffuso intergenerazionale in grado di mescolare coabitazioni tra studenti universitari e anziani, anche attraverso il frazionamento volontario di alloggi diventati troppo grandi e dispendiosi per chi vive solo. Gli studenti così diventano motore di circolarità.

Tra le visioni, anche la realizzazione di un condominio solidale mediante il riuso di patrimonio pubblico o di fondazioni ottocentesche, capace di attivare mutuo aiuto tra i residenti valorizzando le abilità di ciascuno e aprendo spazi comuni di servizio anche verso il vicinato. Progetti molto diversi uno dall’altro che sono necessari di fronte a problemi e contesti altrettanto differenziati. «Un’ipotesi di lavoro complessa perché articolata ma che, dopo il workshop, non è più soltanto ideale, perché sondata, analizzata e valutata tra e con tanti», conclude soddisfatta Natalia.

L’iniziativa è stata supportata dalla Fondazione Compagnia di San Paolo e ha coinvolto diversi partner tra cui Human Tech, Consorzio CGM , Entopan Innovation.

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