Valencia, l’alluvione e quella mattonella che ci svela cosa succederà fra cent’anni
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La foto che vedete qui sotto, risalente all’agosto 2024, illustra due mattonelle affisse a poche centinaia di metri di distanza dal letto del fiume Turia, deviato dopo la piena del 1957. Questo luogo è diventato un grande parco verde che attraversa per 9 chilometri Valencia e il nuovo corso del fiume è stato spostato fuori città, salvando il centro antico dal peggio della travolgente tempesta della scorsa settimana. La prima mattonella, più in basso, a circa un metro dal suolo, mostra il livello della piena menzionata; la seconda, a oltre due metri, mostra il livello di innalzamento delle acque del mare che subirà la città entro il 2100 secondo le previsioni degli scienziati.
La presenza di un documento fotografico come questo attesta la consapevolezza dei rischi del territorio di Valencia e la denuncia continua che la cittadinanza, tramite le associazioni e il volontariato ambientale, esercita su questi temi e la cui pressione e sensibilità hanno contribuito, ironia della sorte, a rendere questa città capitale verde europea del 2024.
E la politica cosa pensa, cosa fa? Non pochi hanno giustamente sottolineato che gli attuali politici, accorsi nei luoghi della devastazione, sono stati duramente contestati, a partire dal presidente della Comunità Valenziana al presidente del Consiglio e alla stessa famiglia reale, perché si sono trincerati dietro l’incredulità e la supposta imprevedibilità di un evento così catastrofico e sono accusati invece di aver sottovalutato l’eccezionalità del fenomeno, di rimanere in fin dei conti incapaci di capire che la rete di previsione andava potenziata, ma soprattutto che bisogna operare ancora di più per prevenire e intervenire coraggiosamente sulle aree a rischio.
Lo spostamento del corso del fiume e il riutilizzo del suo naturale letto come parco verde, realizzato già negli anni ‘60, dimostrano che all’epoca di queste grandi e discusse opere idrauliche c’era una discreta consapevolezza del rischio, sebbene non fosse ancora il tempo nemmeno di immaginare gli effetti dei cambiamenti climatici cui oggi siamo esposti. A cosa era dovuta questa attenzione? Ho vissuto circa una decina d’anni a Valencia e ricordo che ogni anno, fra settembre e ottobre, al più tardi entro novembre si aspettava con un certo timore la gota frìa, cioè la goccia fredda.
Mi chiedevo il perché di un nome così, inconsapevole del fatto che fosse un termine della meteorologia e non una maniera tipica di esprimersi, sempre un po’ caricaturale, dei valenziani. Il fenomeno consiste in una depressione fredda ad alta quota – Depresiòn aislada en niveles altos, DANA – che provenendo dalle zone artiche raggiunge, generalmente a inizio autunno, le regioni dell’est della Spagna, ove trova l’aria più umida e calda del Mediterraneo, che a sua volta viene precipitosamente condensata ricadendo sotto forma di pioggia torrenziale.
Il fiume di Valencia descriveva anticamente un’ansa che ne rallentava il corso verso il naturale estuario. Bastava “raddrizzarlo” o girarlo al contrario, allontanandolo dalla città, quadruplicandone la portata e si sarebbero affrontate anche queste piogge semi-monsoniche. E ha funzionato. Abbiamo visto tutti le immagini di una diga di epoca romana che ha resistito e salvato diverse aree a monte della città: ciò ci autorizza a dire che da duemila anni la regione, sottoposta a questo ricorrente problema, è stata interessata da una regimazione attraverso canali – “acequias” o rogge – che hanno imbrigliato le acque, rallentandone la corsa e distribuendole equamente sul territorio.
E quei canali arricchiscono soprattutto un enorme bacino che è oggi una zona naturalistica di grande pregio, il lago dell’Albufera, circondato da una quantità di risaie che non sono da meno di quelle della nostra valle padana: attraverso quelle stesse “acequias”, nella stagione in cui le piogge sono più scarse, le risaie tornano ad allagarsi per opera dell’uomo e il riso può crescere semisommerso, come necessita.
Quindi abbiamo una vera tradizione di uso e riuso dell’acqua dolce e soprattutto la capacità di trasformare le possibili calamità in risorse. Picanya e Paiporta erano i piccoli borghi a sud ovest della città, più vicini all’estuario e al porto commerciale, tra i quali confluisce un altro piccolo fiume perennemente in secca e quindi tipicamente torrenziale, come Rambla del Poyo. Essi sono cresciuti in maniera non pianificata, creando un’area abitata molto più grande della stessa città storica e diventando la zona di espansione e cementificazione che ha bloccato il naturale assorbimento dell’abituale e sempre più eccezionale pioggia dell’autunno. Ed è proprio lì che è successa la tragedia.
D’altra parte il letto dell’antico Turia attraversa Valencia come uno dei più grandi parchi verdi urbani d’Europa, con il pregio di incrociare altre aree verdi come il Bioparc, il Parc de Capçalera, Jardins del Real-Viveros, per sfociare verso grandissime opere come il Palazzo delle Arti Reina Sofia, la Città della Scienza, l’Oceanografico. Eppure, ripensando al nostro refrain che dice che l’acqua ritorna sempre dove è già passata, ogni volta che vedevo la spettacolare fermata Alameda della metro, al centro dell’antico letto del fiume e ad almeno venti metri di profondità, mi sono sempre chiesto se perfino i nostri urbanisti abbiano dimenticato norme di prudenza elementari come quelle scritte nella saggezza popolare.
Bisogna correre ai ripari, guardando al monito di quella mattonella posta a oltre due metri dal livello attuale del piano di calpestio di una città e di un’intera area completamente pianeggiante. Essa infatti ci rammenta che buona parte della regione di Valencia è stata sottratta al mare dalle glaciazioni di milioni di anni fa e che ancora il mare, lontano pochi chilometri da quel centro, è pronto a riprendersi tutto, non solo se non si interviene localmente, ma se non si agisce anche globalmente.
Clicca qui per ascoltare la rassegna stampa dedicata all’alluvione di Valencia.
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