Qual è il legame tra patriarcato e colonialismo? Ne parliamo con la storica Valeria Deplano
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“Il patriarcato esiste e la violenza di genere non è un fatto privato”. Lo ripetono in questi giorni le piazze, le mobilitazioni femministe e transfemministe, e l’ha ribadito anche qualche giorno fa alla Camera dei deputati anche Gino Cecchettin durante la presentazione della Fondazione dedicata alla figlia vittima di femminicidio, Giulia Cecchettin.
Oggi il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, rappresenta un momento di lotta ma anche di riflessione e consapevolezza sulle radici di una violenza che non è un panno sporco da lavare a casa, bensì fenomeno radicato in strutture sociali, culturali e storiche che attraversano epoche e contesti geografici differenti, ma che trovano un denominatore comune nella disuguaglianza e nell’oppressione sistemica.
In questo contesto, l’intersezionalità – introdotto dalla giurista Kimberlé Crenshaw per spiegare come diverse forme di discriminazione quali razzismo, sessismo o classismo, non agiscano separatamente ma si sovrappongano, creando esperienze specifiche di oppressione – diventa fondamentale per affrontare non solo il patriarcato come sistema di potere, ma anche le sue connessioni con altri fenomeni storici, come il colonialismo, per comprendere come la violenza di genere non sia un fenomeno isolato bensì frutto dell’intersezione con storie di dominio, razzismo e sfruttamento. E come sottolinea Valeria Deplano, professoressa di Storia Contemporanea all’Università di Cagliari, patriarcato e colonialismo viaggiano spesso sullo stesso binario.
Partendo dalla cronaca, qualche giorno fa il ministro Valditara ha dichiarato che «la visione ideologica vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato. Ma come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza». Si può considerare il patriarcato come un fenomeno “finito”?
No, non si può sicuramente considerare esaurita la questione patriarcale, che non si limita all’abolizione delle norme che lo istituivano ufficialmente. Come per tutti i fenomeni storici, anche per il patriarcato sarebbe molto bello se le leggi fossero in grado di risolverne le problematicità e regolare veramente i rapporti interni alla società. Ma mi sembra abbastanza evidente che i rapporti patriarcali continuino a esistere.
Lei è una storica esperta di colonialismo italiano: di recente durante un momento di divulgazione nella libreria La Giraffa ha ribadito che la prospettiva di genere “è necessaria per parlare di colonialismo”. Perché?
Il colonialismo è un sistema di oppressione che si struttura attorno l’idea dell’esistenza delle razze e di una gerarchia tra le presunte razze. Questo presuppone anche il diritto, ritenuto naturale da parte degli appartenenti alla “razza” superiore, di opprimere, occupare, decidere del destino ed esercitare potere sugli altri. In maniera abbastanza prevedibile, i colonialismi sono elaborati da società in cui esistono già altri sistemi di oppressione di classe, genere ed etnia: le società che esprimono i colonialismo sono stratificate dall’oppressione. Il colonialismo è figlio quindi di una società in cui esiste un sistema gerarchico che utilizza i concetti di classe e genere per strutturare le società.
Se l’elemento dell’appartenenza etnica è quello più evidente nello strutturare il sistema di dominio, quella coloniale è un tipo di oppressione che agisce però in maniera diversa anche in base al genere delle persone. Questo significa in maniera molto semplice che le donne colonizzate sono oppresse in quanto colonizzate e in quanto donne. Pensando agli imperialismi agli europei in Asia e Africa, la società è stata organizzata in maniera che i colonizzatori fossero al vertice, i colonizzati al di sotto e le donne nella fascia ancora più bassa della società dei colonizzati.
Questo significa ad esempio che i loro corpi vengono strutturalmente pensati come a disposizione dei colonizzatori in una maniera molto diversa e molto più estrema di quanto accade con i corpi degli uomini. La società coloniale si avvale inoltre di leggi che danno una forma istituzionale anche a questa modalità di dominio e oppressione, nel caso italiano è celebre il madamato [forma istituzionalizzata di schiavismo sessuale diffuso nelle colonie italiana in Africa come l’Eritrea, la Libia, la Somalia e l’Etiopia, NDR].
C’è correlazione tra colonialismo, patriarcato e violenza di genere?
Certamente, anche perché c’è da dire che tutti i sistemi di oppressione, anche i sistemi di occupazione che non sono riconducibili alla famiglia dei colonialismi, portano con sé la violenza di genere. Si tratta di uno strumento di sottomissione delle popolazioni molto utilizzato, questo lo vediamo anche dal fatto che violenze sessuali e stupri sono un elemento che accompagna qualunque conflitto si risolva in una dominazione.
Il colonialismo porta la violenza di genere come elemento sistemico: nel momento in cui noi abbiamo una società diseguale come quella coloniale, in cui il colonizzatore è in una condizione inequivocabilmente di potere, qualunque tipo di rapporto con le donne colonizzate avverrà sotto una differenza di potere. Molte studiose e studiosi in merito ai rapporti consensuali tra colonizzatori e colonizzate, si interrogano su quanto lo spazio coloniale desse davvero la possibilità di scegliere.
Il colonialismo e il patriarcato sono quindi due fenomeni che hanno spesso agito insieme per esercitare controllo sulle popolazioni, specialmente sulle donne. Oggi in Sardegna i dati mostrano un aumento preoccupante dei femminicidi, con un incremento del 200% nel 2024. Secondo lei, in che modo i retaggi di queste forme di dominio storico possono aver contribuito a radicare modelli di violenza di genere che continuano a colpire le nostre società?
Preferisco rispondere non come storica ma come persona, donna che vive nel suo tempo. La società patriarcale continua a esistere in forme varie e diverse. Noi abbiamo una società che è patriarcale in maniera differente rispetto a settant’ anni fa: se da una parte c’è la non istituzionalizzazione del patriarcato, dall’altra c’è anche la diffusione di una consapevolezza che seppure tra mille difficoltà, rende sempre più inaccettati i rapporti patriarcali.
L’idea però di avere il diritto di disporre della vita e del corpo delle donne è molto radicata nella testa degli uomini e credo che essere messi di fronte alla non possibilità di questo controllo sia una parte delle cause di quell’incremento: se non ti posso controllare da viva, ti uccido. I retaggi coloniali li troviamo in forma evidente nella violenza sui corpi delle persone che subiscono processi di alterizzazione, quindi afrodiscendenti ad esempio o percepite come tali.
Essendo persone che nell’immaginario collettivo subiscono processi anche di ipersessualizzazione e inferiorizzazione, continuano a subire nella loro pelle dinamiche tipicamente coloniali che si riflettono sul modo in cui è percepito e usato il loro corpo. Se c’è un patriarcato diffuso, e la violenza è strutturale a una società patriarcale, c’è un surplus di violenza immaginata e agita nei corpi delle donne nere.
Un patriarcato diffuso che coesiste in Sardegna al fianco di una narrazione che nonostante i vari sforzi spesso continua a essere portata avanti anche a discapito delle varie piazze sarde che in questi giorni puntano il dito contro la cultura patriarcale. Sto parlando della narrazione secondo cui in Sardegna esista o sia esistito il matriarcato. Cosa dice in merito la storia?
Quello che conosco lo so da colleghe e colleghi antropologi che hanno studiato ed è una questione di lana caprina, tutto qua. Quando si è parlato di società matriarcale per la Barbagia si è pensato al ruolo che le donne, in una società che vedeva gli uomini stare molto tempo fuori dal centro abitato, assumevano al di fuori dello spazio domestico di gestione economica, aspetto che in altre società più immediatamente riconosciute come patriarcali non c’era.
Chi ha studiato queste dinamiche ha posto una serie di interrogativi alla narrazione sul “matriarcato”: prima di tutto il fatto che anche in questo tipo di società – quella sarda – il potere economico fosse comunque degli uomini, che mantengono quindi un ruolo centrale; la seconda questione è che le donne in questo tipo di sistema hanno un ruolo di gestione spesso per conto degli uomini, quindi di fatto il tipo di organizzazione del potere non cambia.
Ci sono poi elementi che fanno eccezione, come il tema dell’eredità possibile per le donne sarde, però contemporaneamente, dal punto di vista dei rapporti di genere, non c’è nessun tipo di stravolgimento delle gerarchie tipiche della società patriarcale e questo limita fortemente l’idea di una società matriarcale. Probabilmente quella sarda è una società in cui il patriarcato ha agito in maniera meno netta e con più spazi di contrattazione rispetto ad altri contesti, ma la subordinazione sessuale, economica e culturale purtroppo non è messa in discussione.
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