Nuove case: come devono essere per stare al passo con un mondo che cambia?
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Nuove case che rispondono a nuove esigenze. Nuove leggi che regolano un nuove forme di abitare. Già, perché la normativa di riferimento attualmente è il Decreto ministeriale “Sanità” del 5 luglio 1975, che quindi fra poco compirà cinquant’anni, un lasso di tempo durante il quale il mondo si è profondamente trasformato, come mi fa notare Lucio Massardo di MEWE, impresa sociale che si occupa proprio di case, con un focus sull’abitare collaborativo.
L’INCONTRO DI FIRENZE
L’occasione della nostra chiacchierata è il racconto, da parte di Lucio, di un incontro organizzato da ANCE – l’Associazione Nazionale Costruttori Edili – a Firenze dal titolo “Le regole per nuovi modelli di sviluppo urbano”. «Oltre a molti addetti al lavoro e ospiti istituzionali – mi racconta – durante l’evento sono state presentate due esperienze all’avanguardia in questo settore: il forum della partecipazione del Comune di Brescia e il modello di abitare collaborativo proposto da MEWE».
Nell’ambito di Urbanpromo – manifestazione nazionale sulla rigenerazione urbana giunta alla sua ventunesima edizione –, ANCE ha deciso di dedicare mezza giornata di riflessione sul tema della casa e in particolare delle regole per favorire le domande di nuove case. «Nello specifico – precisa Lucio – si è voluto capire due cose: quale ruolo potrebbero avere le nuove forme di abitare rispetto alle politiche urbane del futuro e quali regole sono necessarie per favorire gli interventi nell’ambito di queste nuove forme di abitare».
NUOVE CASE PER UNA SOCIETÀ IN TRASFORMAZIONE
E così giungiamo al primo giro di boa della discussione: oggi le regole impediscono o quantomeno ostacolano modelli abitativi diversi da quelli convenzionali, basati su profili di abitanti ormai inattuali. Eppure la casa rispetto all’evoluzione della famiglia è un tema importante e urgente, anche se oggi è raffreddato da un governo che sostiene solo la famiglia tradizionale. Ma una casa che non si adegua al mutamento sociale rischia di frenare il mutamento sociale stesso.
«La società che aveva portato a pensare alla casa come la conosciamo oggi non esiste più quindi la casa stessa non può che cambiare di fronte a queste nuove sfide sociali», interviene Lucio. «A mio avviso parte dell’ambito lavorativo deve entrare in casa – penso allo smart working ad esempio – e poi all’inverso è opportuno che il lavoro di cura venga portato anche un po’ all’esterno. Non chiedo di superare il concetto di famiglia, ma che essa abbia un supporto anche all’esterno della casa».
Lucio si sofferma in particolare sul ruolo delle donne: le case come le conosciamo oggi sono pensate come luoghi dove svolgere il lavoro di cura – di bambini, anziani, faccende domestiche, educazione – di cui si occupava la donna. Peccato che non sia più così: il tasso di occupazione femminile è aumentato negli anni, sottraendo tempo al lavoro di cura. Il tema ovviamente meriterebbe un approfondimento ampio, ma con il fondatore di MEWE ci limitiamo ad affrontare le conseguenze sul tema dell’abitare. Inoltre la denatalità che sta affrontando l’Italia – negli ultimi vent’anni le nascite sono calate del 34% secondo l’Istat – non è che uno dei fattori che stanno determinando una radicale trasformazione dei nuclei familiari e in generale degli abitanti di case.
«L’abitare collaborativo in questo senso riveste un ruolo importante perché può dare una risposta al profondo mutamento delle strutture familiari e soprattutto può dare un supporto alla donna che si trova ancora con il lavoro di cura sulle spalle», osserva Lucio, che fa anche un secondo esempio coerente con un altro dato demografico che caratterizza il nostro paese, che è quello con l’età media più elevata in tutta l’Unione Europea. «Anche il tema della cura degli anziani diventa centrale: il modello non può più essere quello della persona anziana assistita dalla badante perché non è economicamente – e in alcuni casi neanche socialmente – sostenibile».
LEGGI, ISTITUZIONI E ABITARE COLLABORATIVO
Nuove case, nuovi abitanti e nuovi modelli di abitare. Ma la politica si sta accorgendo di tutto questo? In parte sì, secondo Lucio Massardo: «Da quando l’abitare collaborativo è iniziato a diventare “di moda” sono state coniate molte definizioni diverse – ne ho contate almeno cinque – e il primo bisogno che ravviso è quello di fare chiarezza. Ad esempio, è importante che il legislatore nazionale distingua la coabitazione, che è un condominio come gli altri ma con servizi comuni, dall’abitare collaborativo, ovvero una casa in cui il valore della comunità viene messo al primo posto».
Inoltre è contraddittorio avvicinarsi al mondo dell’abitare collaborativo, che si fonda interamente sui processi partecipati, senza prima mettere mano al corpus legislativo che regola il settore e che si caratterizza per essere molto rigido. «Il design del procedimento amministrativo/burocratico per la costruzione di una casa non ha nulla a che vedere con la partecipazione», sottolinea Lucio. «Il futuro residente viene visto come un cliente o se non addirittura come un mero beneficiario di servizi, ma mai un come soggetto partecipante».
Massardo richiama il già citato Decreto ministeriale “Sanità” che fissa tutti i criteri che deve rispettare una casa e individua una criticità di fondo incompatibile con l’idea di immobile pensato per l’abitare collaborativo: «In un cohousing esistono spazi privati e spazi condivisi, ma la norma che stabilisce le superfici minime a quali spazi si riferisce? Le imposte come IMU e TARI sulla base di quali superfici vengono calcolate? E ancora, il catasto è basato sul concetto di unità immobiliare, ma anche lì non si capisce a quale parte si fa riferimento: gli spazi condivisi di un cohousing sono parte integrante di casa mia, ma anche di casa di qualcun altro».
SPAZI PUBBLICI
Lucio si spinge ancora oltre immaginando spazi condivisi non solo da persone che abitano nello stesso stabile, ma da tutto il vicinato: «Nel cohousing esiste una comunità molto viva, proiettata verse l’esterno. Gli spazi condivisi sono messi a disposizione non solo dei residenti ma spesso e volentieri anche di chi non abita lì, quindi sono piccoli presidi di welfare disseminati nel territorio e autogestiti. Questa è una grande risorsa, che però apre nuovi interrogativi: è possibile agevolare la creazione e la gestione di questi spazi? Se sì, come? Per esempio potrebbero non essere soggetti al diritto edificatorio ed equiparati ai servizi di interesse generale. O ancora, si potrebbero studiare delle agevolazioni fiscali».
Il primo passo però rimane sempre quello dell’aggiornamento del quadro normativo: nuove leggi per nuove case. «Dal mio punto di vista – conclude Lucio Massardo – serve una norma quadro nazionale da cui possano discendere le sperimentazioni locali. La sua mancanza ci induce a “inventare” soluzioni giuridiche che vanno bene finché non sorge un contenzioso, in tal caso si rischia di essere molto esposti a problemi legali. Vorrei che lo Stato definisse in maniera chiara e univoca cos’è l’abitare collaborativo, che elencasse gli incentivi ammissibili e poi che lasciasse la palla a enti locali e privati, che così avrebbero una protezione giuridica e quindi maggiore libertà d’azione».
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