Seguici su:
Frosinone, Lazio - Ci sono atleti che hanno lasciato un segno indelebile nella storia dello sport grazie ai loro memorabili trionfi. E poi ci sono quelli che, paradossalmente, sono diventati famosi a suon di sconfitte. Vi presento Luigi Mantegna – alias “petto d’angelo” per la sua gabbia toracica esposta – da Ceccano, in provincia di Frosinone: 48 anni, di cui diciotto di onorata carriera nel pugilato. Il suo punteggio non può che fare scalpore, anche tra i non appassionati come me: di incontri da professionista ne ha disputati ben 118, ma le vittorie sono state appena due.
La sua è la tipica storia di quelli che nella sua disciplina chiamano mestieranti o collaudatori. «Quelli che vengono chiamati a sfidare, ad esempio, i giovani appena entrati nel professionismo oppure i campioni appena rientrati dagli infortuni», mi spiega nel suo accento ciociaro simpatico e genuino. Spesso, soprattutto all’estero, succede proprio che si mettano d’accordo a tavolino con i loro avversari per truccare i match: della serie, vacci piano o bùttati per terra alla terza ripresa.
Ma Luigi non è uno di loro. Lui, al contrario di quanto potrebbe sembrare se si leggono superficialmente i numeri, quando sale sul ring dà sempre il massimo: tanto è vero che ha perso spessissimo ai punti, in una manciata di occasioni per KO tecnico, ma non è mai finito al tappeto, neanche una volta. Per questo la reputazione che si è costruito nel mondo della boxe non è affatto quella di un perdente, bensì di un agonista tosto e rispettato.
Il suo rapporto con la nobile arte nasce da molto giovane: «Da adolescente provai diverse attività fisiche, finché scoprii che nella palestra di una scuola organizzavano un corso gratuito di pugilato. E me ne innamorai. Anche io all’inizio, come tutti, avrei voluto scalare la vetta», confessa. «Per due volte ho provato a diventare campione italiano, allenandomi per mesi, lasciando momentaneamente da parte il lavoro e investendoci anche i miei soldi». Le due finali le affrontò entrambe nel 2011: la prima contro Devis Boschiero, già campione europeo e finalista mondiale, la seconda contro Benoit Manno. Anche in quel caso purtroppo il risultato non gli fu favorevole.
A quel punto fu costretto a guardarsi allo specchio. Senza grandi titoli da sfoggiare nel palmares, vivere solo di sport era diventato improponibile: anche perché i nostri pugili si chiamano “professionisti”, ma non sognatevi che incassino cifre anche lontanamente paragonabili a quelle dei calciatori – da qualche anno non prendono più neanche la pensione. Per campare, Luigi – che non proviene certo da una famiglia ricca – dovette accettare tutta una serie di mestieri: dall’autista di mezzi pesanti al giardiniere, dal dj – la sua seconda grande passione è la musica – all’operatore socio-sanitario – da poco ha completato il corso.
Questo significa che il tempo e le energie che poteva dedicare alla boxe erano sempre di meno, anche rispetto ai suoi colleghi più blasonati. Sarebbe stato facile gettare la spugna, anche visto che i successi tardavano ad arrivare, ma ormai dovreste aver capito che “petto d’angelo” non è fatto così. «Io la mia passione non volevo abbandonarla», racconta. «Mi piace allenarmi, mi piace combattere, non riesco a starne fuori». Nemmeno quando, nel 2018, è finito in ospedale per una frattura alla mandibola: quella volta ha vacillato – ammette – ma pochi mesi dopo era di nuovo lì al suo posto, sul quadrato.
E pazienza se anche dall’incontro successivo è uscito sconfitto. «Perdere significa solo accumulare esperienza. Significa che la prossima volta avrai imparato meglio a valutare il tuo avversario, avrai capito che devi impegnarti il doppio o anche il triplo. La sconfitta è un bagaglio prezioso: finché non viviamo il dolore sulla nostra pelle non possiamo mai trovare fino in fondo il suo senso».
Per questo trovo che la storia di Luigi Mantegna nasconda un bell’insegnamento per tutti noi. Lui di cazzotti ne ha sempre presi tanti, nello sport come nella vita, segnata da difficoltà economiche e lutti famigliari. Ma ha imparato ad affrontarli sempre a testa alta, a non mollare, soprattutto a non avere paura di riprovarci, anche a costo di fallire di nuovo, ma sempre facendosi guidare dalla sua grande vocazione. Perché è quella, e non il successo effimero, la vera strada per la felicità, come ha scoperto.
Il 2024 sarà il suo ultimo anno di carriera, poi sarà costretto ad appendere i guantoni al chiodo per via del nuovo limite di età imposto nell’aprile scorso dalla federazione italiana, e si dedicherà ad allenare i giovani, come ha già cominciato a fare da qualche tempo.
«Dopo il mio ultimo match, a Napoli, mi si è avvicinato un ragazzino, un aspirante pugile, e ha iniziato a farmi domande sulla mia carriera. A un certo punto mi ha guardato negli occhi e mi ha chiesto: “Luigi, ma perché fai tutto questo?”. E io gli ho risposto: “Non per gli altri, ma per me stesso. Delle chiacchiere dei giornalisti, degli arbitri, degli utenti dei social non mi interessa niente. Io sul ring ci voglio continuare a stare, comunque, vada come vada”».
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento