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Maternità e agevolazione fiscale, GPA (gestazione per altri), aborto. Quando penso alle ultime politiche in termini di diritti riproduttivi, penso che io non mi sono mai immaginata incubatrice. Non è mai successo, ne sono certa, anche se la fantasia è stata sempre una carta che ho amato giocare. La domanda “cosa vuoi fare da grande” era un’occasione. “L’avvocato” dicevo, ignorando la declinazione al femminile e il fatto che la mia preparazione sarebbe dovuta andare oltre la palestra dei pranzi di famiglia. Ovviamente, figlia dell’Isola delle servitù militari, ho avuto anche la fase esercito. Che dire, se non che è finita.
L’idea di un fidanzatino o di bambini, arrivava su sollecitazione. “Che cosa vuoi fare da grande” per me significava che cosa vuoi fare con te stessa, cosa vuoi essere. Né sposa né madre erano le prime risposte. Le parole però fanno il mondo e se quei termini – fidanzatino, bambini – nel dialogo con gli adulti entravano nella fantasia del futuro, allora dovevo iniziare a costruirmi delle basi reali. Mattia fu il mio punto di partenza. Era un mio compagnetto; alto – “quello lungo”, dicevo –, bello, abitava sotto casa di un’amica di mia madre. La mia prima cosiddetta crush, dall’asilo fino alle elementari. Con lui, la mia fantasia sul futuro si fece casa, come su The Sims.
Su due piani nello specifico, naturalmente con giardino e piscina. Una casa in cui io avrei fatto sempre l’avvocato, lui avrebbe “lavorato nella plastilina” – questo è tutt’ora un grande aneddoto in famiglia. La mia risposta alla domanda “cosa vuoi fare da grande” diventava così una proiezione al plurale. Cosa avrei fatto io e cosa avrebbe fatto lui. Piccola postilla: le parole che mi hanno mostrato il mondo, me l’hanno declinato al maschile per molto tempo: fidanzato, figlio, figli. Io mi sono costruita dopo. Eppure – dicevamo – anche con il livello “fidanzatino” sbloccato, la fantasia di bambini, “miei”, non era spontanea. L’idea dei figli è arrivata da ben più grande, quando la realtà ha iniziato a concedere meno spazio all’immaginazione.
MA IO I FIGLI LI DEVO FARE?
Se le parole che hanno fatto il mio mondo sono state al maschile, è perché la realtà concedeva (e concede) molto poco spazio a tutto ciò che non fosse uomo, cisgenere, etero, bianco, abile, magro, conforme. Uno spazio che però mi è sempre stato concesso è quello di discussione sul restare incinta, partorire, crescere persone. Figli. L’ho mai chiesto? No, ma sono sempre stata chiamata a esprimermi nel caso in cui l’argomento fosse saltato fuori. E così c’è stato un momento in cui quella opzione è effettivamente entrata nel mio immaginario.
“Farò un figlio entro i trent’anni”. L’ho detto a mia madre da adolescente e mai l’avessi fatto. Gliel’ho promesso in realtà, probabilmente in preda a un’indigestione da cultura patriarcale. La questione però è che se l’ho fatto, se l’ho promesso, vuol dire che c’è stata una fase nella mia vita in cui ho sentito che quello fosse un mio dovere, un onere al quale assolvere il prima possibile. Che dire, se non che anche questa fase è finita? Ciò che però in questo caso non è terminato, è il continuo stimolo esterno che mi rimanda non tanto a quello stadio là, quanto al chiedermi: ma io, i figli, li devo fare?
La risposta che mi do è che no, non devo e al momento non voglio. E questo testo potrebbe terminare così se non fosse per quella vocina che al “non devo né voglio” mi sussurra all’orecchio: “sacrilegio“. È una vocina che non è mia ma è in me. Poniamola in termini social: dentro di me ci sono due lupi. Uno frutto della cultura che ho scelto di abbracciare, dei libri che ho voluto leggere, dei collettivi di cui ho voluto far parte e delle voci che nel mio corpo, come fosse grancassa, hanno battuto e risuonato parole di autodeterminazione, liberazione, rinascita. L’altro è figlio della cosiddetta cultura dominante, di quello che ho dovuto leggere, ascoltare e ripetere a memoria.
GPA, REATO UNIVERSALE E SFRUTTAMENTO
E tante, forse troppe volte, le parole alle quali ho dovuto approcciarmi, non mi hanno fatto sentire libera, autodeterminata, persona. Mi hanno fatta sentire corpo di pezza in balia di mani altrui. In questo periodo in cui si parla di una GPA resa reato universale ad esempio, non mi sento libera. Ricordiamolo: in territorio italiano la GPA era un reato già da circa vent’anni, ma a ottobre 2024 è diventata, grazie a un ddl approvato da Senato e Camera, reato universale, ovvero punibile anche per chi l’ha praticata all’estero. “Il corpo delle donne non può essere sfruttato”, ho letto svariate volte a corredo delle notizie in merito. Ma la GPA è a priori sfruttamento?
Se scelgo di essere solidale verso un’altra persona o coppia e di portare avanti una gravidanza per lei/loro, non sto sfruttando il mio corpo. Lo uso per quello che mi permette di fare, così come probabilmente sceglierei di donare qualsiasi altro organo se nelle mie possibilità e volontà. “Eh ma la GPA non è per tutte una scelta libera”, dice lupo numero 2. Ma l’istituzione di un reato universale non norma la pratica stabilendo giusti limiti e doverose garanzie per chi sceglie la GPA; la criminalizza in toto. L’interesse non è di evitare quindi pratiche di sfruttamento o abuso, bensì impedire a priori e senza limiti geografici la GPA. Frenare la gestione autonoma dei diritti riproduttivi delle persone con utero.
Quello dello “sfruttamento” è un eventuale problema che non mina la legittimità della GPA. Riguarda piuttosto la qualità della vita delle persone, la garanzia di accesso ai diritti fondamentali, la decostruzione di disuguaglianze sistemiche che determinano gerarchie e quindi marginalizzazioni. In una Sardegna che è tra le regioni meno virtuose in territorio italiano per qualità della vita, al primo posto tra le regioni con maggiori criticità negli ospedali, dove il 14% della popolazione rinuncia alle cure – la media italiana è del 7,6% –, maglia nera per quanto riguarda l’abbandono scolastico e che dal 2016 al 2024 ha perso oltre 88.000 abitanti, davvero è la GPA una minaccia allo sfruttamento?
Rinunciando all’entrare nel merito del fatto che ogni mestiere, ogni prestazione per altre persone è a prescindere uno sfruttamento del corpo di cui troppo spesso non ci si preoccupa – neanche quando si pretendono prestazioni lavorative sottopagate come ad esempio accade da anni in Sardegna con lavoratori e lavoratrici stagionali –, non sono forse le condizioni di vita precarie a costituire una minaccia alla prevaricazione, agli abusi, all’oppressione dei corpi? Non è forse la mancata garanzia di accesso a diritti fondamentali come la casa, il lavoro, la salute, l’istruzione o l’autodeterminazione di sé, a favorire gerarchie, privilegi, e quindi oppressori e oppressi? Sfruttatori e sfruttati?
ESSERE CONTRO NATURA
L’idea di “difendere il corpo delle donne” dal possibile sfruttamento – in questo caso – da GPA, pone radici nella fiabesca, distorta e soprattutto patriarcale visione del “corpo della donna” come un fragile fiorellino di campo abbandonato alle intemperie, in attesa di essere colto ovvero sradicato e oggettificato. Il “corpo delle donne” non ha chiesto di essere universalmente protetto dalla GPA. Le richieste che vanno avanti da anni tra piazze, mondo reale e virtuale, riguardano altro.
Il non essere uccise una ogni tre giorni per mano di un uomo, ad esempio. L’essere credute quando si denuncia un abuso e non processate al posto del carnefice. Non dover scegliere tra lavoro e famiglia – in Sardegna nel 2018 è successo a 655 donne, contro i 135 uomini. Poter scegliere di portare avanti una gravidanza senza paura, senza dover fare dai 70 ai 130 chilometri per partorire, come accade nell’Ogliastra privata del punto nascite. Non essere costretta a partorire per avere accesso a sgravi fiscali e dover quindi sfruttare il proprio corpo su richiesta implicita di uno Stato che parla di “emergenza natalità” mentre chiude i punti nascite e taglia fondi su sanità e istruzione.
Poter scegliere di interromperla una gravidanza senza che questa decisione venga impedita da terzi che non collaborano al mantenimento della prole, da chi pensa che la tua essenza primaria sia quella di incubatrice. “Ma è contro natura” dice ogni tanto lupo numero 2, a seconda del tema. Ma davvero la natura mi chiede questo? Davvero nasco per essere un’incubatrice da azionare regolarmente? La Sardegna è tra le regioni d’Europa a maggiore rischio di desertificazione. Siamo in autunno e nell’Isola si continua a parlare di allarme siccità. Qualche giorno fa nel Sulcis è venuta giù in poche ore la pioggia di più di sei mesi, rischiando un’altra Valencia. No, la natura, non mi chiede di essere un’incubatrice.
La natura ce l’ha con me, mi chiede di fermarmi, mi chiude in casa per una pandemia, mi urla di ridurre gli impatti, di fermare l’inquinamento, di costruire una nuova consapevolezza fondata sul rispetto e sull’ascolto. Di stare al mondo, avendone cura. La natura non mi chiede di essere un’incubatrice perché io non lo sono. Sono una voce che reclama spazio, una scelta che si rinnova, un corpo che appartiene a se stesso. E forse, questa è la vera minaccia alla loro idea di natura.
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