L’agricoltura può contrastare lo spopolamento delle aree interne?
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Savona - In Italia tredici milioni e seicentomila persone, circa un quarto della popolazione, vive nelle aree interne del nostro stivale. In queste zone, che si stanno spopolando a una velocità doppia rispetto alla media nazionale (dati ISTAT), la perdita di abitanti è del 4%, contro il 2,2%. Se lo spopolamento è un trend nazionale da Nord a Sud, alcuni borghi sono in controtendenza, proprio grazie al processo di ripopolamento che li sta rendendo protagonisti di una variazione demografica interessante. Ci siamo chiesti allora se l’agricoltura può riuscire a combattere questo fenomeno e in che modo. Ne abbiamo parlato con Giovanni Minuto, direttore del CeRSAA, il Centro di Sperimentazione e Assistenza Agricola di Albenga.
Giovanni, partiamo dall’analisi delle criticità: quali sono le principali difficoltà agricole delle aree interne, come la val Pennavaire?
Innanzitutto la viabilità, sia primaria che interna di un territorio d’altura, quindi sicuramente anche quella intra-aziendale; poi la disponibilità di acqua, perché spesso ci sono difficoltà lungo la rete idrica e il problema della gestione della stabilità dei versanti, specialmente nella val Pennavaire, con i suoi terreni in declivio.
Un’altra criticità è senza dubbio la fauna selvatica, che compromette tra le altre cose la gestione di eventuali muretti a secco: gli animali non seguono i sentieri segnati dagli esseri umani, ma si muovono lungo le linee di massima pendenza. I cinghiali poi col muso rovesciano il terreno alla ricerca di umidità e larve e così facendo tolgono la terra sotto alle pietre e alla prima pioggia il muretto a secco crolla.
Un altro aspetto importante da considerare è che stiamo perdendo sostanza organica nei suoli e questo è il primo passo verso la desertificazione, conseguenza da una parte dell’abbandono delle terre e dall’altra di decenni di concimi minerali. Una possibile soluzione può essere il compostaggio locale con restituzione di sostanza organica in loco. Lo facevano nei secoli scorsi, oggi bisogna tornare a farlo.
Come si sta modificando l’agricoltura con i cambiamenti climatici in atto tra eventi estremi e siccità?
Intanto occorre, dal punto di vista scientifico, fare un ragionamento di base. Se andiamo a cercare le rappresentazioni dell’esercito romano, dei pastori di Roma, vediamo che giravano per l’Italia e l’Europa in cotta e gonnellino di maglia. Cosa significa questo? All’epoca – quindi parliamo di duemila anni fa – il clima era diverso e più favorevole. Poi abbiamo vissuto un periodo dell’Alto Medioevo decisamente più freddo e lo vediamo come riflesso nei castelli, nelle abitazioni, con le finestre molto piccole, quindi con la necessità di ridurre la dispersione di calore.
Ora invece stiamo vivendo un più che evidente periodo di innalzamento termico, come conseguenza di un’importante immissione in atmosfera di anidride carbonica e dei cosiddetti gas serra. Però è altrettanto vero che in passato variazioni climatiche ci sono state per ragioni di carattere spaziale, legate alla distanza dal sole o all’inclinazione dell’asse terrestre.
Se il clima cambia però cambiano anche le coltivazioni. Abbiamo parlato recentemente con il titolare dell’azienda agricola Olio del Casale, il quale ci ha raccontato che sta sperimentando la coltivazione dell’olivo in quota, visto l’innalzamento delle temperature.
Le cartine geografiche della distribuzione dell’olivo nell’intorno dell’epoca romana e nei secoli successivi indicano la presenza dell’olivo in Piemonte, Veneto, Trentino, Slovenia. Già in passato quindi l’olivo si era molto espanso a nord, per lo più arroccato intorno ai grandi laghi, perché l’acqua consentiva di avere una capacità termica in grado di mitigare i rigori dell’inverno. Ora che stanno nuovamente crescendo le temperature dobbiamo essere pronti e flessibili. Le strade per farlo sono numerosissime: la prima va verso un recupero dell’agrobiodiversità. Se nel tempo alcune varietà sono state punite dalla storia o dal mercato, ora è importante andare a recuperare e valorizzare quelle varietà locali minori, oggi quasi scomparse.
Parliamo di nuovo dell’oliva: la taggiasca è sensibile alla mosca dell’olivo, ai ritorni di freddo e alla carenza di acqua. La colombaia, storica varietà autoctona, oggi coltivata solo marginalmente in provincia di Savona e alcune zone del finalese, è arrivata in Liguria molto prima della taggiasca, ma è meno produttiva, la sua resa rimane abbastanza bassa. Quali sono però suoi vantaggi? Veniva preferita dalle antiche popolazioni per la sua buona capacità di resistenza alla siccità e all’eccesso di umidità del suolo, in più ha una maggiore tolleranza alla mosca dell’olivo.
Essere pronti a reagire con una soluzione di riserva significa sapere già come muoversi. D’altronde se le temperature crescono si moltiplicano anche i problemi fitosanitari, in proporzione all’aumentata vivacità degli insetti: questi sono tutti fenomeni da monitorare per poter essere proattivi e non farsi cogliere impreparati.
Quindi in futuro potrebbe sparire la taggiasca in favore della colombaia?
Non in modo assoluto: un’idea potrebbe essere innestare varietà di colombaia su piante di taggiasca già esistenti. Dobbiamo essere consapevoli che la biodiversità è qualcosa che la natura ci offre, quindi non va dispersa. Per questo oggi si lavora con l’obiettivo di essere pronti a reagire.
Quali possono essere le possibili soluzioni e i supporti per le aziende agricole?
Far sì che le produzioni di questi territori interni possano avere le giuste valorizzazioni. Vi porto un esempio. Nell’area intorno a Vessalico, negli undici Comuni che formano l’Unione dei Comuni dell’Alta Valle Arroscia, nell’imperiese, stiamo portando a compimento un progetto che valorizza il cosiddetto terroir, grazie agli studi e alle ricerche che abbiamo fatto come CeRSAA, in collaborazione con il dipartimento di Farmacia dell’Università di Genova.
Le varietà di aglio coltivate qui, pur essendo di origine francese, in quella zona assumono caratteristiche aromatiche e organolettiche che sono uniche rispetto ad altre varietà di aglio di aree limitrofe. Il fatto di poter individuare caratteristiche misurabili consente di proporre quelle produzioni come caratterizzate da una certificazione di qualità, non potendo puntare sulla quantità.
Al momento stiamo orchestrando con la rete dei vari agricoltori che fanno parte del Comitato per la tutela dell’aglio di Vessalico di chiedere al Ministero dell’Agricoltura l’Indicazione Geografica Protetta. Siamo ormai arrivati all’ultimo metro della nostra corsa, ci siamo quasi: questo riconoscimento di qualità consentirà indubbiamente a dare notevole valore a quel territorio, che si trasformerà in un’area di interesse economico.
Chi è andato via alla ricerca di fortuna probabilmente tornerà, chi voleva trasferirsi a valle è possibile che resti, mentre chi non appartiene a quell’area ma vedrà delle occasioni di business invece ci andrà appositamente. Lo abbiamo già visto quando il basilico genovese è diventato DOP: è stata un’occasione che ha consentito agli abitanti di restare nel proprio territorio.
Se pensiamo a un’area interna vengono subito in mente le difficoltà nel raggiungere i servizi basilari: ecco, per poterli espandere è importante dimostrare che un certo tipo di servizi è sostenibile, perché gli abitanti ci sono. La scommessa quindi è proprio quella di rendere le condizioni economiche tali da permettere alle popolazioni locali di restare.
Sono dell’idea che se impariamo a sfruttare quello che la natura ci offre, saremo in grado di cogliere il massimo risultato con uno sforzo già compiuto. Non parlo solo di agricoltura: in un’area interna si possono portare avanti anche attività artigianali che permettono di sviluppare una certa unicità, perché altrimenti i giovani si spostano in città, con uno scivolamento a valle delle attività. La cosa importante, a mio avviso, è dare diverse alternative, perché la chiave di lettura di un territorio non è uguale per tutti. Una cosa è certa: dobbiamo offrire diversità.
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