Abitare collaborativo: cosa significa coltivare il gruppo dei futuri residenti?
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Dal timore dei conflitti all’angusta sensazione di dover condividere spazi e tempo con amici, familiari o addirittura perfetti sconosciuti. Sono diverse le resistenze e perplessità che possono emergere in chi decide di buttarsi a capofitto in un progetto di abitare collaborativo. Infatti nonostante quella del cohousing – una forma di abitare collaborativo in cui individui o famiglie vivono in abitazioni private ma condividono spazi e risorse comuni, come cucine, giardini, aree di lavoro o ricreative – sia sempre più una scelta ricorrente per interi nuclei familiari e single, è difficile non prendere in considerazione i risvolti di una scelta di vita simile.
Al di là degli spazi – che come vedremo vanno già immaginati e progettati in funzione dei futuri abitanti, perché intrinsecamente legati ai loro bisogni – ancor prima occorre occuparsi di quel gruppo di persone che hanno scelto di abitare insieme. Bisogna fare in modo che si riconoscano come comunità, un microcosmo fatto a sua volta di spigoli, differenze, somiglianze, debolezze e punti di forza. Singoli individui o nuclei familiare preesistenti.
TUTTO SI BASA SULLA RECIPROCITÀ
Su come nasca una comunità di futuri abitanti, ci aiuta a fare chiarezza Natalia Ardoino, architetto e ideatrice di MeWe, un progetto di abitare collaborativo di cui vi avevamo già parlato qui. Ma prima occorre fare qualche precisazione. «Il concetto di abitare collaborativo su cui lavoriamo come MeWe è molto più ampio di quello che comunemente si intende con il termine cohousing», sottolinea Natalia. «Si può dare vita a un progetto di abitare collaborativo in un condominio, ma anche in un quartiere, senza restringere il campo ai limiti strutturali di una singola abitazione».
Siamo tutti in qualche modo «abitanti comunitari, ma forse solo in situazioni di emergenza riusciamo a rendercene conto». Per approfondire cosa si intende con abitare collaborativo e come si arrivi a realizzare un progetto del genere, Natalia Ardoino fa un passo indietro chiamando in causa innanzitutto la sua stessa professione e le tecniche della cosiddetta progettualità collaborativa. «All’università gli architetti sono allenati al protagonismo. Si dedicano a un progetto presumendo dei bisogni. Nella progettazione partecipata invece, molto adoperata soprattutto nelle opere pubbliche, si parte dai bisogni reali, si dialoga con la comunità».
Dalle tecniche di progettualità condivisa fino alla coltivazione di una comunità e alle forme di abitare collaborativo, si attua un graduale processo di consapevolezza. «Da Don Milani ho imparato quanto siano importanti le parole. Ognuna di esse è un pensiero che ci costituisce come esseri umani. Nel mio lavoro all’interno di MeWe mi piace partire da una in particolare: fragilità. La solitudine, la paura di rimanere da soli, il timore di invecchiare e diventare un peso per i propri figli, sono tutte motivazioni che possono spingerci a scegliere un progetto di abitare collaborativo».
Ma questo non basta. Occorre lavorare sulla consapevolezza della propria fragilità. «L’abitare collaborativo è un progetto di reciprocità. Quindi è importante acquisire la consapevolezza di quella nostra fragilità di cui abbiamo paura ed esprimerla. Su questo substrato posso porre le fondamenta di un progetto di vita simile. A questo punto entra in gioco il ruolo del facilitatore: «È fondamentale che emergano fragilità e punti di forza di ognuno. In un’ottica di reciprocità il proprio punto di forza può essere d’aiuto a una fragilità altrui e viceversa. Si è tutti chiamati in causa in prima persona».
Natalia porta vari esempi del concetto di fragilità e del fatto che anche chi si sente tale può essere una risorsa per la comunità: «Una signora anziana potrà giocare qualche volta con il mio bimbo piccolo o magari impartire delle lezioni di inglese se è stata un’insegnante di inglese. E in cambio vivrà vicino ad altre persone che avranno cura di lei nei momenti di difficoltà».
LE COMUNITÀ NON SI COSTRUISCONO
Chi si avvicina a un progetto di abitare collaborativo può esserne un grande entusiasta oppure avere numerose remore. «Di solito quando con MeWe iniziamo a lavorare insieme a un gruppo diffido moltissimo degli entusiasti, perché non colgono le reali difficoltà di un progetto di vita fondativo come questo. Lavorare con chi arriva con una buona dose di scetticismo invece regala grandi soddisfazioni. Dopo i primi incontri ti accorgi che ha una postura più rilassata, le spalle meno contratte e sono certa che all’interno di quella futura comunità diventerà un caposaldo, perché ha intimamente elaborato e superato le difese del suo scetticismo».
La reciprocità su cui si fonda un progetto di abitare collaborativo è faticosa, richiede costanza, impegno, responsabilità. Ma sfatiamo subito un mito: nessuna comunità si costruisce. «La comunità si coltiva come un orto. Non sai esattamente cosa nascerà da quei semi, ma hai la certezza che farà il suo corso. Il gruppo a un certo punto si autoseleziona, riconoscendo somiglianze e fragilità reciproche. Perché il timore delle nostre fragilità ci rende intimamente simili e ci permette di vivere insieme, nella scelta di reciprocità e non di sola condivisione valoriale. Solo così si creano dei legami saldi. E non importa se ci si conosce già oppure no».
MeWe aiuta i futuri abitanti a gestire i conflitti e acquisire un insieme di strumenti culturali indispensabili alla futura comunità. «Nei gruppi di facilitazione insegniamo ai partecipanti come discutere e superare la paura di non reggere un conflitto. Tutti noi possiamo imparare a discutere seguendo delle regole, utilizzando le parole e i modi appropriati. Questo rassicura molto, perché ci si sente protetti dall’idea di poter affrontare qualsiasi cosa, persino un conflitto».
ESSERE COMUNITÀ DENTRO LA COMUNITÀ
Ma quanto tempo ci vuole per coltivare una comunità? «Di solito i primi incontri di facilitazione iniziano con l’avvio del cantiere e possono durare una media di sei mesi. Si parte da un gruppo più folto, formato da almeno venti persone, fino ad arrivare a circa sei nuclei familiari, che costituiranno la comunità». In realtà il lavoro del facilitatore prosegue anche una volta che sarà nata la comunità: insomma, continuerà a prendersene cura in vari modi. «Ad esempio – spiega Natalia – allargando le dinamiche dell’abitare collaborativo nell’ambito in cui si colloca la residenza affinché i concetti di fiducia, vitalità, solidarietà, reciprocità, protezione e sostegno siano diffuse attraverso l’esemplificazione che la comunità di abitanti collaborativi sta attuando».
Non bisogna mai dimenticare che ogni comunità vive all’interno di una comunità più grande con cui condividere spazi e magari progettualità. «La comunità di abitanti collaborativi deve essere ricettiva rispetto ai bisogni altrui, non chiudersi in sé stessa». Gli spazi possono essere a disposizione anche degli abitanti del quartiere, nell’ottica di crearne sempre di nuovi che possano assolvere a funzioni diverse. «Mi piacerebbe ad esempio che una parte della foresteria – conclude Natalia – venisse dedicata alla stanza delle nascite, a pochi minuti da un centro medico, dove la coppia di futuri genitori possa trasferirsi una settimana prima del parto e attrezzata per il parto in casa. Sarebbe bellissimo: accogliere in uno stesso luogo una nuova vita e altre persone».
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