Salute mentale e stigma: il ruolo della comunità nel comprendere le cause per favorire il cambiamento
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Da oltre trent’anni, il 10 ottobre si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, istituita nel 1992 con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica su una questione – quella della salute mentale – di fondamentale importanza. Eppure, nonostante sia trascorso del tempo, attorno al tema ruotano ancora non pochi pregiudizi e visioni errate. Lo stigma è però il risultato di una società che in molti casi guarda a persone, corpi e menti attraverso la lente dell’abilismo, giudicando, discriminando e alimentando un sistema che marginalizza e nega diritti.
Ma se lo stigma affonda le radici in una mancanza di conoscenza e comprensione della salute mentale, è (anche) qui che si inserisce il lavoro di professioniste come Alessandra Perra. Tecnica della riabilitazione psichiatrica, si occupa nel territorio sardo di prevenzione a vari livelli e riabilitazione per la salute mentale, facendo luce sui vari aspetti legati al tema della salute mentale, con l’obiettivo di promuovere inoltre una società più inclusiva e consapevole.
Da dove nasce lo stigma sulla salute mentale e in che modo questo impatta negativamente sulla vita delle persone?
Essendo l’attribuzione di qualità negative verso una persona o un gruppo di persone, lo stigma è una discriminazione che viene attuata sulla base di pregiudizi, generati da errori di valutazione e mancanza di conoscenze. Le categorie infatti maggiormente soggette a queste discriminazioni, sono le minoranze: la comunità lgbtqia+, minoranze etniche e religiose e persone che vivono esperienze di sofferenza legate alla salute mentale in una società abilista e orientata alla performance.
La stigmatizzazione crea isolamento. La persona quindi spesso non sa a chi chiedere aiuto, oppure le volte in cui lo chiede non viene ascoltata proprio perché stigmatizzata. Ed ecco come lo stigma sulla salute mentale diventa una barriera verso un accesso alle cure e alla tempestività del richiedere aiuto. È fondamentale lavorare per decostruire tutto ciò.
Un lavoro che passa anche per le parole: in che modo allora si dovrebbe parlare di salute mentale?
È fondamentale parlare di vissuti, come l’esperienza di affrontare il diabete o un disturbo bipolare. Utilizzando un linguaggio inclusivo possiamo evitare di descrivere le persone attraverso termini stigmatizzanti, in favore di espressioni più rispettose e umane. La questione centrale è dove poniamo l’accento. Se utilizziamo la diagnosi come strumento per etichettare le persone, questo approccio non funziona e contribuisce allo stigma.
La persona poi non deve mai sovrapporsi alla categoria diagnostica, perché rimane una persona: come fai esperienza di tante cose, c’è anche un’esperienza di salute fisica e mentale. È un processo culturale ancora in divenire, se consideriamo che fino agli anni ’80 la salute mentale veniva trattata in termini di riduzionismo biologico, per cui la persona che viveva un’esperienza di disturbo veniva considerata malata e rinchiusa in un manicomio. Oggi si è compreso che alla base delle “malattie” non c’è solo una variabile biologica, ma è stato introdotto il ruolo di determinanti sociali.
Che cosa sono le determinanti sociali?
Le condizioni di vita, il supporto sociale, l’accesso ai servizi sanitari e le esperienze traumatiche sono ad esempio determinanti sociali e hanno un ruolo cruciale nel determinare la salute dell’individuo. La ricerca ha dimostrato come i fattori ambientali possono influenzare l’evoluzione genetica, suggerendo che le nostre esperienze personali e la nostra storia possono avere un impatto su di noi a livello biologico.
Io faccio sempre l’esempio del diabete: posso avere una predisposizione al diabete, ma se sono inserita in un contesto familiare in cui ci sono informazione e consapevolezza a riguardo, crescerò con una serie di attenzioni verso il mio stile di vita. Lo stesso esempio si può applicare alla salute mentale. Sicuramente c’è una predisposizione genetica, ma le determinanti sociali hanno un ruolo molto importante.
Appurato che il contesto in cui viviamo ha un ruolo, quali risposte offre la società a quelle che sono esperienze di disturbi della salute mentale?
L’Italia è il paese all’interno dell’Unione Europea che investe meno in salute mentale, e la Sardegna è la regione con i minori investimenti. Questo significa che le nostre istituzioni sono responsabili della diminuzione dello stato diritto alla salute e alla salute mentale. Inoltre la società non è informata, consapevole e sensibile sul tema, perché ragionare su questo è l’antitesi della cultura capitalistica in cui viviamo, in cui trovare la soluzione più rapida con il maggiore beneficio è un meccanismo nucleare del nostro cervello.
Quando noi lavoriamo sulla nostra salute mentale dovremmo ragionare al contrario: sederci con calma, riflettere e valutare tanti aspetti. Questo chiaramente non si sposa con quello che è il nostro background culturale: la frenesia della vita quotidiana porta a cercare risposte immediate, come chiedere farmaci come unica risposta piuttosto che intraprendere un percorso terapeutico, più costoso e impegnativo. Questa mancanza di cultura introspettiva – e di fattori strutturali come risorse economiche per la prevenzione – fa sì che le emozioni siano stigmatizzate e i problemi di salute mentale, non ben affrontati.
Il sistema sanitario qua è pronto ad accogliere le varie esperienze di disturbo?
Lo stigma sulla salute mentale è una realtà complessa nel sistema sanitario, spesso alimentata dalla mancanza di comprensione delle patologie, che porta a pregiudizi e malintesi. Patologie poco conosciute vengono erroneamente catalogate come disturbi mentali, creando un circolo vizioso. Disturbi come la schizofrenia sono spesso fraintesi, con operatori sanitari che possono mantenere pregiudizi sui pazienti, attribuendo le loro difficoltà a scelte personali anziché a problemi più profondi.
Ciò rende difficile affrontare le reali cause di sofferenza, riflettendo una società che spesso genera angoscia. Se a questo aggiungiamo la mancanza di formazione verso i valori umani nei percorsi formativi e la mancanza strutturale di risorse economiche e umane, ci si rende conto di come il SSN sta implodendo in tutti i settori, figuriamoci in quello della salute mentale dove storicamente vi è stata una violazione di diritti umani fondamentale.
In conclusione, in materia di salute mentale la collettività ha un ruolo?
Noi abbiamo un ruolo come individui e come comunità. È evidente che per me è molto più semplice concentrarmi sulla responsabilità individuale: mi chiedo come posso vivere meglio, come posso affrontare le varie situazioni della mia vita. Tuttavia, è necessaria un’azione collettiva da parte di una comunità disposta a sostenere le mie esigenze, considerato il contesto in cui l’istruzione e la sanità sono penalizzate.
Negli ultimi tempi, c’è una crescente consapevolezza riguardo a queste problematiche, e questo fa ben sperare per il futuro, ma la mancanza di fondi adeguati e il permanere dello stigma rende difficile ad esempio per i genitori riconoscere quando i loro figli necessitano di aiuto. Spesso, si cerca una soluzione per disturbi visibili, mentre per comportamenti non conformi alle norme culturali ci si sente in colpa piuttosto che agire. Una dinamica che può portare a negazione e a una scarsa propensione a chiedere supporto professionale.
È chiaro che non possiamo delegare completamente alla sanità la gestione di questioni con profonde radici socio-economiche-politico e culturali. È essenziale sviluppare una consapevolezza collettiva e un approccio integrato alla salute mentale. Dunque, come collettività dobbiamo rimboccarci le maniche in modo da impegnarci attivamente, creando reti di supporto dove ognuno possa riflettere su come migliorare il benessere di se stesso e degli altri. Ma se questo non viene supportato dalle istituzione e dalle politiche con cui vengono investiti i fondi, vi è una responsabilità nel contribuire allo stato di malessere di cittadini e cittadine.
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