La responsabilità di chi educa nel consolidare i ruoli e gli stereotipi di genere
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Mi è capitato di recente di rileggere il libro di Gianini Belotti Dalla parte delle bambine. Il testo è uscito per la prima volta nel 1973 e certo, a più di cinquant’anni di distanza molte cose sono cambiate, eppure sotto certi aspetti è ancora attualissimo. Nel libro l’autrice analizza “l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”, condizionamenti che dipendono in larga misura dai genitori e dalle/dagli insegnanti.
Lavorando nel mondo della scuola questo tema mi tocca profondamente: quale e quanta responsabilità ha chi educa nel creare e consolidare i ruoli e gli stereotipi di genere? In una pagina del libro Gianini Belotti propone una serie di esempi volti a mostrare in che modo le insegnanti – a quei tempi esclusivamente donne – si relazionino in maniera diversa a bambini di sesso maschile e bambine di sesso femminile: “Non tolleriamo che una bambina stia scomposta, ci sembra normale che stia scomposto un maschio. Si pretende che una bambina non urli, non parli a voce alta, ma se si tratta di un bambino ci sembra naturale”.
“Puniamo una bambina, trasalendo di raccapriccio, se dice parolacce – prosegue l’autrice –, se le dice un maschio ci viene da ridere. […] Se un maschio si rifiuta di andare a prenderci un oggetto ci sembra nel suo diritto e andiamo a prendercelo da soli, se rifiuta una bambina ci sembra un’aperta ribellione. […] Se una bambina non è affettuosa con i bambini più piccoli ci sembra un mostro di cattiveria, da un maschietto ci aspettiamo che li maltratti piuttosto che li accarezzi o li baci. Se un maschietto strappa un oggetto dalle mani di un altro bambino glielo impediamo ma in fondo ce lo aspettavamo, da una bambina non ce lo aspettavamo affatto”.
“[…] Se una bambina piagnucola le diciamo che è noiosa ma le diamo retta, se lo fa un bambino gli diciamo che è una femminuccia. […] Se sorprendiamo un maschietto che gioca con i suoi genitali gli imponiamo di smetterla, se sorprendiamo una bambina allora, oltre a imporle di smetterla, non riusciamo a nascondere il disgusto”, conclude Gianini Belotti.
Molte di queste cose grazie al cielo non sono più vere, eppure l’impressione che ho osservando i comportamenti delle e degli insegnanti e anche di me stessa è che siano rimasti dei residui di cui è davvero difficile sbarazzarsi. Più o meno consapevolmente ci aspettiamo cose diverse da bambine e bambini e questo non può che riflettersi nel modo in cui ci relazioniamo a loro, andando a influenzare la costruzione della loro identità.
Qualche giorno fa per esempio mi sono sorpresa a pensare: “Probabilmente le ragazze saranno più inclini a cimentarsi in attività di natura artistica rispetto ai compagni”. Quasi automaticamente ho attinto a tutta una serie di stereotipi condivisi: le bambine sono più tranquille e riflessive, più inclini a attività statiche, i bambini invece preferiscono giochi di movimento più attivi, sono più agitati, meno riflessivi e così via.
Tesi fondamentale di tutto il libro di Gianini Bellotti è che non ci sia nulla di innato, biologicamente deciso a priori, che differenzi il comportamento tra maschi e femmine, ma che tutto sia il risultato del condizionamento sociale a cui si è sottoposti/e. Se il modo in cui ci comportiamo noi adulti nei confronti di maschi e femmine e le aspettative che riversiamo su di loro sono fin dall’infanzia differenziate, non si possono che generare comportamenti differenziati. Peccato però che questa differenziazione non sia neutra ma decisamente a favore di uno dei due generi. Questo non può che tradursi in disparità.
Questa disparità diventa ancor più evidente quando ci si sposta dall’infanzia all’adolescenza, dove il condizionamento sociale si è stabilmente sedimentato. Il mio lavoro in classe me lo ricorda spesso. In una quarta superiore di un liceo scientifico stavamo affrontando il tema del corpo che ci ha condotto a parlare di questioni di genere. Abbiamo letto un estratto da un testo di Preciado, “Sono un mostro che vi parla”. Leggendo ad alta voce la frase “Allo stesso modo mi era impossibile spiegare il paradosso per cui le donne, sottomesse, stuprate, assassinate, devono amare e sacrificare la vita ai loro oppressori, gli uomini eterosessuali”, un ragazzo è sbottato, seguito da altri suoi compagni.
C’è stata una piccola sollevazione volta a rivendicare quanto sia ingiusto generalizzare in questo modo, etichettando tutti gli uomini eterosessuali come stupratori e assassini. La discussione è poi degenerata: in diversi hanno preso la parola per affermare con una certa sicurezza la superiorità degli uomini sulle donne, arrivando al suo culmine con un ragazzo che, alzandosi in piedi e rivolgendosi direttamente alle compagne, ha provocato dicendo: “Quante di voi si alzerebbero alle 5 della mattina per andare a lavorare, voi che solo per venire a scuola ci mettete un’ora per truccarvi?”.
Qui emerge con chiarezza l’affermarsi di una disparità, non soltanto nei contenuti di quanto espresso ma anche nei modi, nella postura del corpo, eretta, e nel tono della voce, alto e perentorio. Ancora più evidente se confrontato con il comportamento della componente femminile della classe: tutte le ragazze sono rimaste sedute, la maggior parte con la testa bassa rivolta verso il banco, in pochissime hanno preso la parola, tenendo un tono di voce pacato e composto, cercando di mantenere la calma, una soltanto si è scaldata, sentendo però subito dopo l’esigenza di uscire dall’aula per nascondere il pianto.
Dello stesso sapore è stato un altro episodio, questa volta in una seconda superiore di un istituto tecnico. Nel corso del dialogo è emerso il tema della differenza tra maschi e femmine, uomini e donne. Ho deciso allora di approfondire. Ho diviso la lavagna a metà, scrivendo su un lato maschi/uomini e dall’altro femmine/donne. La lavagna ha iniziato a riempirsi, prima soffermandosi sulle differenze fisiche e poi su quelle comportamentali.
Ecco quanto emerso. Maschi: “Più rozzi; si fanno andare bene tutto (in termini di partner); sono dei veri amici; non hanno bisogno di fare le cose in privato”. Femmine: “Se la tirano, fanno le preziose, fanno le vittime, non sono delle vere amiche, parlano in privato”. Da sottolineare come entrambe le parti della lavagna siano state riempite soltanto con le idee espresse dai ragazzi. Quasi nessuna ragazza si è sentita di parlare, qualcuna ha cercato timidamente di difendersi, rimarcando come anche i ragazzi “se la tirino”, ma nessuna ha aggiunto idee sulla lavagna, soprattutto non in positivo rispetto alla loro parte.
Questi sono solo due dei tanti episodi che avrei potuto raccontare. Situazioni di questo tipo rivelano come, nonostante gli innumerevoli passi avanti fatti negli ultimi anni, il problema della disparità di genere sia ancora lontano dall’essere risolto. Se rifiutiamo di imputare tali differenze di comportamento tra ragazze e ragazzi, nella direzione della sottomissione delle une e della affermazione degli altri, a mere basi biologiche, dovremmo allora ammettere che chi educa gioca qui un ruolo importante.
Dovremmo chiederci, in quanto adulti coinvolti in relazioni educative, qual è la nostra responsabilità, quali sono gli stereotipi e pregiudizi che inevitabilmente abbiamo assorbito e che più o meno consapevolmente mettiamo in atto, aspettandoci comportamenti diversi e relazionandoci in maniera differenziata con ragazzi e ragazze, bambini e bambine.
C’è però una buona notizia. Se non è tutta mera biologia, se noi abbiamo un ruolo importante, significa anche che è in nostro potere fare qualcosa per cambiare le cose. E certamente questo cambiamento è iniziato. Seppure qui mi sia concentrata sugli aspetti negativi non mancano esempi positivi, come quando una bambina, in risposta al suo compagno che dice che certi giochi le femmine non li possono fare, è andata a prendere il suo trapano elettrico, lo ha sollevato in alto e ha sentenziato a gran voce: “Non è assolutamente vero!”.
Per saperne di più sul tema leggi i contenuti del nostro viaggio nell’amore (e nel sesso) che cambia.
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