Perdite idriche: in Italia gli acquedotti disperdono il 40% dell’acqua che trasportano
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Quando si dice “fare acqua da tutte le parti”. Gli acquedotti italiani sono un colabrodo: disperdono oltre il 40% dell’acqua che trasportano, con punte che arrivano al 70. Numeri doppi rispetto alla media dei paesi industrializzati. Gli ingredienti alla base delle incalcolabili perdite idriche sono diversi, dalla mancanza di investimenti alla cattiva gestione, alla frammentazione. L’abbondanza d’acqua del nostro paese – l’Italia è il terzo stato europeo per disponibilità idrica – ha sopperito per anni alle disfunzioni del suo sistema di gestione.
Ma la crisi climatica, con sempre più prolungati periodi di siccità, ci spinge a rendere più efficiente la gestione e ridurre le dispersioni. Negli ultimi vent’anni l’autorità di regolazione ARERA ha introdotto alcuni obblighi di investimento per i gestori e la situazione è iniziata gradualmente a migliorare, aiutata recentemente dai fondi del PNRR, ma il divario da recuperare è ancora ampio e le sfide che il servizio idrico integrato deve affrontare molto impegnative.
LE PERDITE IDRICHE IN ITALIA RISPETTO AL RESTO DEL MONDO
Secondo la Banca Mondiale, le perdite idriche nelle reti dei paesi ad alto reddito si aggirano tra il 10 e il 20%. In Italia il dato è del 40 %. Due quinti dell’acqua immessa nella rete finisce nel terreno prima di raggiungere i consumatori finali. La provincia di Frosinone ha perdite che arrivano fino al 70%. Nei Comuni di Siracusa, Belluno, Latina e Chieti più dei due terzi dell’acqua immessa va perduta. Le regioni del Centro-Sud Italia – come Lazio, Calabria, Sicilia e Sardegna – hanno perdite che in molti casi superano il 50%. Ironia della sorte, molte di esse sono anche fra le regioni più colpite dalla siccità.
Esistono luoghi al mondo dove l’estrema scarsità di acqua ha spinto negli anni le istituzioni a implementare reti idriche molto efficienti, che riducono le perdite al minimo. In Israele, in alcune zone aride dell’Australia come Perth e Adelaide o a Singapore le perdite idriche si mantengono fra il 5 e il 10%. Questi risultati sono stati spesso ottenuti grazie a sistemi avanzati di monitoraggio delle perdite, infrastrutture idriche moderne e costantemente aggiornate e investimenti in tecnologie di recupero e gestione.
Casi come questi richiedono uno sforzo energetico notevole, probabilmente eccessivo per un paese in cui l’acqua è in media abbondante come l’Italia. Ma anche uscendo dai casi studio, le medie di dispersione idrica dei paesi industrializzati sono molto distanti da quella italiana.
Per fare un confronto con altri paesi europei, in Francia, Spagna e nel Regno Unito le perdite si aggirano attorno al 20-25%. In Germania, uno dei paesi più virtuos, le perdite sono in media del 7-10% grazie a una gestione molto efficiente e investimenti continui nella manutenzione della rete. Tutti questi risultati sono stati raggiunti attraverso un lavoro costante e continuo di manutenzione e ammodernamento degli acquedotti. Cosa che, almeno per un lungo periodo, non è avvenuta in Italia.
Oggi però il tempo stringe. Il nostro paese è un hotspot climatico ed è più soggetto di altri all’aumento delle temperature medie e a una progressiva desertificazione e all’aumento della siccità. Il consumo domestico di acqua, quello che passa attraverso gli acquedotti, rappresenta in Italia – sprechi inclusi – meno di un quarto del totale, ma è di gran lunga il settore più regolamentato. L’agricoltura da sola prende circa la metà del consumo idrico italiano, il resto lo fanno l’industria e la produzione di elettricità. In tutti e tre questi settori i prelievi di acqua avvengono in maniera diretta e deregolamentata.
«Se gli altri utilizzatori non partecipano allo sforzo collettivo – spiega Donato Berardi, direttore del Laboratorio sui servizi pubblici locali di Ref Ricerche, una società di ricerca e consulenza – è velleitario pensare che le minori perdite idriche della rete possano risolvere i problemi della scarsità. Dobbiamo iniziare a misurare anche i prelievi degli altri utilizzatori e soprattutto a fare in modo di ridurre i loro consumi e perdite anche loro, ad esempio attraverso tecniche di irrigazione, riuso dell’acqua depurata e riduzione del consumo di acqua nei processi produttivi idroesigenti». Insomma, ridurre le perdite idriche lungo la rete è importante ma non sufficiente per affrontare la siccità.
I MOTIVI DEL (TRISTE) PRIMATO
C’è un buco nero che per circa un trentennio ha avvolto la rete idrica italiana. Pochissimi investimenti, lavori di manutenzione ordinaria ridotti al minimo e quasi nessuno di ammodernamento. Questo fenomeno non ha una spiegazione univoca. Alcune analisi lo riconducono alle difficoltà economiche del nostro paese, alle crisi fiscali e del debito, a una gestione frammentata del servizio idrico a livello locale, con competenze spesso sovrapposte tra amministrazioni locali, regionali e nazionali.
Fatto sta che a partire dai primi anni ottanta e fino agli anni dieci del nuovo millennio gli acquedotti italiani sono rimasti immobili e il tempo non è stato galantuomo. Ancora oggi, secondo l’ISTAT, le reti idriche italiane pagano lo scotto di quegli anni di immobilismo. Molte di esse sono state costruite più di cinquant’anni fa e hanno subito scarsi interventi di manutenzione e ammodernamento, specialmente nelle aree del centro-sud.
«Il problema – continua Berardi – non è solo che le condutture sono vecchie e malmesse, ma che l’assenza di sensoristica rende molto complicato determinare dove avvengono le perdite e quindi intervenire in maniera mirata». Mediamente le perdite più alte per chilometro di rete avvengono nei grandi centri urbani, dove c’è un numero maggiore di derivazioni dalla conduttura principale, la pressione dell’acqua è maggiore e la rete è più capillare e complessa.
LE COSE STANNO CAMBIANDO, MA SERVONO INVESTIMENTI PUBBLICI
Con l’istituzione dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) nel 2011 e con la crescente attenzione ai problemi delle perdite e dell’efficienza delle reti, sono stati fatti progressi per cercare di invertire la tendenza. Tuttavia, il divario creato dai tre decenni di scarso investimento richiede sforzi massicci e continui per essere colmato. La regolazione di ARERA ha indirizzato gli interventi di riduzione delle perdite, fissando obiettivi di riduzione per i singoli gestori. Così, in particolare nell’ultimo decennio, la percentuale di perdite ha iniziato a ridursi.
Di pari passo sono aumentati gli investimenti. Il sistema tariffario introdotto da ARERA prevede che i gestori del servizio idrico integrato utilizzino parte delle entrate delle bollette per finanziare investimenti sulle infrastrutture idriche. Così dai 20 euro procapite investiti nella rete degli anni 2000 siamo passati ai 70 euro pro capite del 2020. Una crescita importante, ma che ancora non raggiunge la media dei paesi europei di 100 euro pro capite.
Di recente la riduzione delle perdite è sostenuta anche da alcuni fondi speciali dal PNRR con un 1 miliardo di euro di risorse aggiuntive, che si sommano ai 4 miliardi già stanziati a sostegno del servizio idrico e a un altro miliardi circa di fondi comunitari. Totale: 6 miliardi di euro all’anno, circa. 100 euro pro capite, in media con i paesi industrializzati europei. In particolare, parte dei fondi derivanti dal PNRR sono dedicati a un programma di riduzione delle perdite basato sull’installazione della sensoristica che consenta l’individuazione rapida e puntuale delle perdite. Insomma, è probabile che le percentuali di perdite continuino a scendere nei prossimi anni.
In molti però ritengono questo investimento ancora insufficiente per due motivi. Il primo, ci spiega Donato Berardi, è che «dobbiamo recuperare anni di ritardo negli investimenti, quindi non basta investire quanto gli altri paesi, dovremmo farlo di più, a maggior ragione visto che i fondi del PNRR a un certo punto finiscono». La seconda ragione è che la riduzione delle perdite non è l’unico settore su cui è necessario intervenire.
Infatti mentre il nostro paese ha ricevuto la quarta procedura di infrazione UE relativa alla normativa comunitaria del 1991 sulla depurazione delle acque di scarico, il Parlamento europeo sta per approvare definitivamente la nuova versione della stessa direttiva, nota anche come direttiva acque reflue, che – in linea con gli obiettivi del Green deal – chiede ai servizi idrici di compiere un vero e proprio salto quantico.
Parliamo di standard più rigorosi per la rimozione di materia organica e microinquinanti, riduzione di azoto e fosforo dalle acque, monitoraggio in tempo reale delle microplastiche e delle sostanze chimiche “eterne” come i PFAS, riutilizzo delle acque reflue trattate, soprattutto nelle aree soggette a stress idrico. E ancora, introduzione del principio del “chi inquina paga” e obbligo di neutralità energetica per tutti i processi di depurazione – ergo, installare fonti rinnovabili e produrre energia in loco.
Se il nostro Paese fa ancora fatica a rispettare gli standard imposti dalla direttiva del 1991, raggiungere quelli nuovi sembra impossibile se non a patto di un importante piano di investimenti, che difficilmente si potrà basare solo su un aumento delle bollette. «Se guardiamo avanti, nei prossimi dieci o quindici anni – conclude Berardi – avremo bisogno di circa 8 miliardi all’anno di investimenti. Considerando che quelli straordinari del PNRR e quelli europei finiranno, significa raddoppiare la cifra attuale».
Chi può farsi carico di questo importo? Le opzioni sono due: o l’utente del servizio idrico, attraverso un aumento consistente delle bollette, oppure il contribuente, attraverso la finanza pubblica. Secondo un’analisi di Ref i cittadini italiani sono disposti a pagare in media un 4% in più per migliorare o mantenere alto lo standard del servizio.
Ma gli investimenti necessari, se caricati tutti sugli utenti, porterebbero ad aumenti in bolletta ben maggiori, attorno al 30-40%. Al contrario, se a intervenire è lo Stato c’è il vantaggio che l’investimento può essere fatto in parte ricorrendo al debito pubblico, quindi di fatto “spalmandolo” su un arco temporale maggiore. Per queste ragioni Berardi non sembra avere dubbi: «Serve una gamba pubblica costante per permettere la trasformazione del servizio idrico integrato».
FONTI
#dispersione idrica
ARERA, Relazione annuale 2024
ISTAT, Censimento delle Acque per Uso Civile 2022
Ref, Premi e penalità RQTI: le performance di qualità del servizio idrico, ottobre 2022
#tariffe
Ref, Il miglioramento del servizio idrico come motore della disponibilità a pagare, novembre 2020
Ref, Costi ambientali e della risorsa: la tariffa nel XXI secolo, novembre 2020
#Nuova direttiva europea
Ref – Decarbonizzazione, nuovi inquinanti e responsabilità estesa del produttore: il nuovo paradigma europeo per il servizio idrico, marzo 2023
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