3 Ott 2024

Patrick Zaki: “La speranza è il motivo per cui esisto e racconto la mia storia”

Scritto da: Tiziana Barillà

Gli interrogatori, l’isolamento, le torture, le prigioni disumane e i 40.000 detenuti del regime di Al-Sisi, il caso di Giulio Regeni e le relazioni Italia-Egitto. Ma anche le lotte, gli studi, la speranza e il supporto della sua famiglia, della sua università e dell’Italia intera. A Catanzaro, durante il NON fest, abbiamo incontrato Patrick Zaki, con cui abbiamo dialogato sulla sua storia e quella dei due paesi mediterranei.

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Catanzaro - Ho incontrato Patrick Zaki il 26 settembre a Catanzaro. La cornice è stata quella del NON fest, una rassegna promossa dalla rivista NON Magazine con l’obiettivo di far emergere le attività editoriali che tramite una penna o una matita riescono a portare conoscenze e consapevolezze in Calabria. La penna in questo caso è quella di Patrick Zaki, l’occasione è il suo libro Sogni e illusioni di libertà. La mia storia pubblicato un anno fa da La nave di Teseo.

Da tempo il suo principale proposito, racconta, era quello di visitare le città italiane che lo hanno sostenuto: «La mia presenza qui è il frutto anche del supporto che mi avete dato nel corso degli anni, se sono qui oggi è anche grazie a voi». Chiede di parlare in inglese, Patrick, e lo fa grazie all’impeccabile interprete calabrese Alessandra Longo. Così si sente più sicuro in un momento in cui «parlare di politica e diritti umani è difficile». E come dagli torto? Il 7 febbraio del 2020, tornato al Cairo da Bologna, dove studiava, Zaki viene arrestato e resta in prigione per 20 mesi. 

A prima vista il suo portamento appare un po’ impacciato, ma i suoi occhi sono decisi. Pronuncia le sue parole con calma e gentilezza, senza che questo tolga un grammo alla fermezza dei suoi contenuti. Dopo aver rotto il ghiaccio con il benvenuto in Calabria e dopo aver scoperto che il primo amico di Patrick in Italia è stato proprio un calabrese, decido di andare dritta al punto e gli chiedo se ricorda quel giorno: il 25 gennaio 2011.

Patrick Zaki
La nostra Tiziana Barillà (a destra) intervista Patrick Zaki

Quel giorno migliaia di egiziani riempirono piazza Tahrir sull’onda delle proteste che in Tunisia, 11 giorni prima avevano portato al rovesciamento di Ben Ali innescando quella che ottimisticamente è stata battezzata dai media “Primavera araba”. In fondo, è da lì che parte la storia di Patrick Zaki

Il 25 gennaio 2011, come tanti giornalisti europei, ero in redazione a seguire le proteste di Piazza Tahrir mentre tu era lì, in carne e ossa, a respirare e nutrirti di quella Rivoluzione. Ricordi quel giorno? 

Sicuramente lo ricordo, all’epoca avevo vent’anni e non posso dimenticarlo perché ha letteralmente stravolto la mia vita. Può sembrare un giorno venuto fuori all’improvviso ma in realtà è stato il frutto di qualcosa che già si stava muovendo da prima, già ribolliva un senso di ribellione verso quello che succedeva nel nostro Paese.

Non è stata una sorpresa. Ed è stato un giorno che ha cambiato la mia vita perché ho iniziato a vedere persone a me vicine morire al mio fianco, lì ho compreso quanto sia preziosa la libertà. Gente che è stata disposta a sacrificare la propria vita per la libertà, che è stata uccisa dalla polizia, che mi ha fatto capire veramente la situazione del mio Paese. La Rivoluzione può sembrare un sogno ma può rivelarsi anche un incubo. Alcune persone che hanno lottato sono morte per questo, io sono finito in prigione. 

Patrick Zaki
Scrivi che “l’attenzione pubblica garantisce la sicurezza di un prigioniero politico” ed è così. In quei giorni dall’Italia seguivamo costantemente quanto succedeva in piazza Tahrir, sapevamo ogni dettaglio, finché – come spesso succede – l’agenda mediatica ha sostituito quello spazio con un altro evento. La mediaticità può contenere anche dei rischi, a volte, come quello di oscurare la causa della persecuzione. E allora bisogna continuare a raccontarlo: perché ti hanno fatto tutto questo? 

I regimi non ascoltano quello che abbiamo da dire, piuttosto tendono a creare delle differenze, cercano di allontanare le persone. In Egitto questa differenza è stata creata per motivi religiosi e quando è iniziata la Rivoluzione il regime si è stupito del fatto che la gente potesse essere unita. Non sapevano nemmeno come gestire la cosa, visto che non se l’aspettavano.

Quello egiziano è sempre stato un regime di controllo perciò davanti a persone che collaboravano per ottenere libertà e democrazia sono rimasti spiazzati. Ricordo che uno degli articoli che ho scritto durante la Rivoluzione si intitolava proprio “Salta fuori dai muri della Chiesa”: in Egitto i cristiani venivano percepiti “al di fuori” di queste dinamiche, con la Rivoluzione è stato come se avessero fatto questo salto al di fuori delle mura della Chiesa. 

Tu sei parte di queste minoranze. 

Io sono cresciuto in una famiglia cristiana, perciò faccio parte di una delle minoranze egiziane. Ovviamente non sono finito in prigione per quell’articolo ma per tutta una serie di cose che ho scritto e documentato dal 2011 al 2019, in qualità di voce e rappresentante di quelle minoranze. Ricordo che il presidente egiziano dell’epoca aveva affermato che chiunque avesse preso parte alla Rivoluzione sarebbe finito in carcere. Ci ho ripensato molte volte mentre ero in prigione, all’epoca non credevo potesse essere preso sul serio, invece poi è stato così: in Egitto c’è un regime che non permette nessun tipo di opposizione. 

Patrick Zaki
Foto di Erin A. Kirk-Cuomo
Il presidente dell’epoca era Mubarak, oggi al suo posto c’è Al-Sisi ma il regime è lo stesso. Nel libro scrivi: “Ero una pedina nelle relazioni internazionali tra l’Italia e l’Egitto”. Dopo Giulio Regeni, come Giulio Regeni… 

Quando si parla di Giulio il mio pensiero va prima di tutto alla sua famiglia perché – a differenza della mia – non sono ancora riusciti a riscattarsi. Effettivamente sono diventato una pedina. Dall’Egitto vedevo quello che il mio arresto ha scatenato in Italia, credo che le reazioni in Italia abbiano fatto pensare all’Egitto che potevano usarmi come una pedina da muovere a loro piacimento.

Questa vicenda ha avuto ripercussioni da diversi punti di vista, anche commerciale ed economico. Mi hanno utilizzato come una merce di scambio o forma di ricatto, come a dire: “Ok, siamo stati fortunati, questo ragazzo funziona anche se non ce lo aspettavamo quando lo abbiamo arrestato, iniziamo a utilizzarlo per chiedere e avere di più”, dall’Europa in generale, dall’Italia in particolare viste le sue relazioni con l’Egitto.

Ho iniziato a vedere persone a me vicine morire al mio fianco, lì ho compreso quanto sia preziosa la libertà

Spesso la complessità viene scambiata per complottismo, posso chiederti di sfatare questo mito e spiegarci brutalmente cosa c’era in ballo in questa partita a scacchi di cui eri una pedina? 

C’erano diverse ragioni e venivo usato in diversi modi ma credo che il motivo principale sia stato il caso di Giulio Regeni che, a differenza del mio caso, non è stato risolto. È stato come se io fossi diventato una pedina per sovvertire quell’episodio, per coprire, mascherare quella vicenda. Parliamoci chiaro, in Egitto ci sono 40.000 detenuti con la cittadinanza europea, ci sono anche due italiani che sono stati arrestati e in pochi lo sanno.

Quindi perché proprio io? Perché io ho tante cose in comune con Giulio Regeni: gli studi, i luoghi che abbiamo visitato, la difesa dei diritti umani. Credo sia per questo che c’è stata tanta attenzione su di me, perché io potevo in qualche modo riscattare quanto non è successo con Giulio. Sarebbe stato impensabile che si ripetesse la stessa storia.

A proposito di pedine… hai ancora quelle realizzate con il sapone in prigione, di cui racconti nel libro? 

Assolutamente sì! Sono diventate una sorta di simbolo per me. Le ho fatte in prigione per superare l’ansia in un momento in cui mi sentivo particolarmente ansioso: la mattina mi alzavo, sceglievo il sapone e iniziavo a fare queste statuette che conservo ancora a casa in Egitto perché mi ricordano che in quel momento difficile ce l’ho fatta. 

Patrick Zaki
Il libro è rapido, fluido e pieno zeppo di particolari e dettagli. Hai preso appunti o è rimasto tutto scolpito nella tua mente? 

All’inizio non ho avuto la possibilità di prendere appunti, perché non mi erano concesse carta e penna. Poi però ho trovato un modo per avere qualcosa per scrivere e ho iniziato a scrivere su pezzi di stoffa. In prigione era come se io fossi diventato l’amico di tutti, perché tra prigionieri ci si comprende, sapevano la mia storia e hanno cercato di aiutarmi. La persona che mi ha aiutato a trovare la penna era la stessa che mi portava il cibo di nascosto, la stessa che poi prendeva questi pezzi di stoffa e, con l’aiuto di altri prigionieri, riusciva a farli arrivare alla mia famiglia.

Sono riuscito a scrivere sui tessuti per un mese, poi sono stato scoperto e per cinque mesi non ho avuto la possibilità di scrivere in alcun modo, fino a quando mi è stato concesso di avere dei libri. Su questi libri, tra le righe, ho iniziato a scrivere delle piccolissime parole chiave che mi hanno poi permesso di ricostruire i ricordi. La scrittura del libro è durata un anno e non è frutto di memoria, in un anno ho messo insieme tutte queste parole chiave. È molto importante scrivere nel momento presente, scrivere subito, perché poi con il tempo si rischia di dimenticare. 

Tra le tante cose che racconti e di cui potrei chiederti ce n’è una che mi è rimasta impressa: di quando un impiegato – un civile, non una guardia – ti ha colpito senza ragione. 

È molto difficile per me, ancora oggi, ripensare a questo, perché non mi spiego come sia possibile. Sono molto felice che tu abbia notato proprio questo ricordo nel libro, perché menziono diverse torture ed episodi di violenza ma questo l’ho scritto perché volevo che stimolasse una riflessione. Se hai notato questo episodio vuol dire che ti sei accorta che per me è stato un momento molto difficile, perché quello non è stato un colpo dato dal regime, ma dalla mia gente. 

Durante la prigionia hai fatto un po’ il “sindacalista”, cioè hai rivendicato i diritti tuoi e degli altri detenuti, hai messo in piedi un corso di inglese per i tuoi compagni di prigione più giovani. Lì dentro sei riuscito a mantenere un barlume di umanità, hai più sentito qualcuno dei tuoi compagni di prigionia? 

Assolutamente sì. Li sento ancora, sento le loro famiglie e i ragazzi che sono ancora in prigione perché non hanno avuto la mia stessa fortuna. Sono in contatto con loro, proprio oggi ho sentito due di loro. 

È incredibile che usi il termine “fortuna”… 

No, non lo è. Sono fortunato perché per me molte persone hanno combattuto dentro e fuori la prigione, sono stato supportato mentre dentro ci sono prigionieri che sono stati dimenticati persino dalle loro famiglie, alcuni di loro sono usciti di prigione ma non hanno una vita, non hanno nemmeno un supporto psicologico per superare quello che gli è successo.

Io sono uscito di prigione, posso viaggiare, sono Italia, ho scritto un libro. È importantissimo riconoscere i propri privilegi quando si hanno e nel momento in cui si hanno. Dopo quello che mi è successo, pensare a questi ragazzi mi impone due obiettivi fondamentali: continuare a lottare per i diritti e fare in modo che chi è ancora in prigione possa uscire prima possibile. 

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