50.000 morti all’anno per gli allevamenti intensivi, in particolare in pianura padana
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Nel 2018 uno studio aveva rivelato che chi vive in pianura padana ha un’aspettativa di vita inferiore di un anno rispetto alla media a causa dell’inquinamento. Ricerche correlate di ISPRA e Greenpeace sono poi andate alla radice della situazione ambientale in questa zona, considerata una delle più inquinate d’Europa. A formare lo smog della pianura padana, oltre a ossidi di azoto e di zolfo, concorre in maniera importante l’ammoniaca che, liberata in atmosfera, si combina con questi componenti generando le polveri fini. Cruciale il ruolo degli allevamenti, responsabili di circa l’85% delle emissioni di ammoniaca.
È cambiato qualcosa rispetto a quegli anni? Qual è la situazione nel 2024? La risposta arriva da un’analisi congiunta portata avanti da Greenpeace Italia, ISDE Medici per l’Ambiente, Lipu, Terra! e WWF in occasione della Giornata Mondiale per gli Animali negli Allevamenti che cadeva il 2 ottobre. Le riflessioni condivise dalle associazioni hanno anche lo scopo di spianare la strada al convegno “Oltre gli allevamenti intensivi. Per una transizione agro-ecologica della zootecnia”, che si terrà il prossimo 24 ottobre a Roma con l’obiettivo di alimentare il dibattito sulla proposta di legge da calendarizzare al più presto.
QUALCHE NUMERO
Come fa notare ISPRA in una nota, gli allevamenti intensivi sono causa del 75% di tutte le emissioni di ammoniaca in Italia. Si tratta della seconda fonte di formazione di polveri sottili nel nostro Paese. Rispetto ai dati del biennio 2018/2020 la situazione non sembra dunque essere migliorata molto.
Anche per quanto riguarda le conseguenze sulla salute? Purtroppo sì: sempre secondo ISPRA, ogni anno in Italia queste polveri sottili causano circa 50.000 morti premature, in particolare in pianura padana, territorio non a caso con una massiccia presenza di allevamenti intensivi. Nell’intero comparto dell’agricoltura, il 79% delle emissioni di gas serra si deve agli allevamenti di animali destinati al consumo umano, che generano circa il 40% delle emissioni globali di metano.
L’IMPATTO AMBIENTALE E NON SOLO
Ma non è solo una questione di numeri: gli impatti ambientali, economici, sociali e sanitari degli allevamenti intensivi infatti sono enormi e non più sostenibili, dall’utilizzo delle superfici agricole per la produzione di mangimi – circa due terzi dei cereali commercializzati in Europa si trasformano in mangime e circa il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale –, all’enorme quantità di inquinanti come l’emissione di ammoniaca e metano nell’aria e nitrati nel suolo e nelle acque.
La zootecnia industriale comporta la presenza di un elevato numero di animali in uno spazio ristretto, creando inoltre un ambiente favorevole al proliferare di virus e zoonosi. Senza dimenticare il consumo considerevole di acqua e la produzione di enormi quantità di escrementi animali da smaltire. “L’allevamento intensivo – scriveva l’ISDE in un documento datata 2021 – si caratterizza nel non essere più produzione agricola, perché non più legato alla terra. Questo significa che chi alleva animali, non necessariamente deve disporre della terra per alimentarli, con la conseguenza che meno è lo spazio utilizzato maggiore è la massimizzazione delle operazioni di nutrimento e cura con conseguente maggiore rendimento e profitto”.
LE SOLUZIONI
“Tutti questi numeri resi disponibili dalla ricerca scientifica e ambientale – fanno notare le Associazioni – rendono evidente l’urgenza di avviare a livello globale, nell’Unione Europea e nel nostro Paese una transizione della zootecnia intensiva verso modelli di allevamento agroecologici, anche a difesa delle piccole aziende, travolte anch’esse dal modello attuale: in poco più di dieci anni l’Italia ha infatti perso quasi il 40% delle sue piccole aziende mentre sono cresciute quelle più grandi che spesso adottano metodi più intensivi”.
Il fatto che sia possibile ce lo dimostrano casi come quello della Danimarca, il primo paese al mondo a introdurre una tassa sul carbonio sulle emissioni agricole. A partire dal 2035 infatti gli agricoltori danesi pagheranno una tassa di 300 corone danesi – circa 40 euro – per ogni tonnellata di CO2 emessa. Anche se l’applicazione inizierà in maniera più soft già dal 2030 con una imposta minore, di 140 corone a tonnellata – circa 19 euro.
Ridurre e gradualmente eliminare gli allevamenti intensivi in pianura padana e nel resto dell’Italia e del mondo è un passaggio cruciale nel fronteggiare la crisi ambientale e climatica, come hanno sottolineato anche due ricercatori americani in un articolo pubblicato sul Guardian alcuni mesi fa. La ricerca sviluppata dagli autori dell’articolo – Patrick Brown e Michael Eisen – ha stimato che una graduale eliminazione degli allevamenti animali nel corso dei prossimi 15 anni rappresenterebbe più della metà delle riduzioni nette di emissioni necessarie per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali.
Circa metà dei benefici climatici di questa eliminazione deriverebbe dalla drastica riduzione delle emissioni di due gas serra molto potenti, metano e protossido di azoto. Il resto sarebbe ottenuto dalla cattura di enormi volumi di anidride carbonica dall’atmosfera attraverso la fotosintesi, poiché foreste e praterie native si riprendono sulle terre ora utilizzate per alimentare o pascolare il bestiame.
Tornando in Italia, il pool di associazioni ha presentato a febbraio una proposta di legge, accompagnata da un manifesto, per cambiare il sistema degli allevamenti intensivi. Dopo essere passata al vaglio degli uffici legislativi, la proposta di legge è stata pubblicata sul sito della Camera dei deputati il 23 luglio scorso, con le firme di 21 parlamentari di cinque diversi gruppi politici. Per incoraggiare la transizione ecologica delle grandi e medie aziende e rendere protagoniste le piccole aziende agricole, riconoscendo il giusto prezzo ai piccoli produttori e garantendo ai consumatori l’accesso a cibi sani e di qualità, la proposta di legge prevede un piano di riconversione del comparto, finanziato con un fondo dedicato.
“Il cambiamento deve partire da un freno all’ulteriore espansione degli allevamenti intensivi e passare per una progressiva riduzione del numero di animali allevati”, concludono le associazioni. “Serve una moratoria sull’apertura di nuovi allevamenti intensivi e sull’aumento del numero di animali allevati in quelli già esistenti, in particolare nelle zone più inquinate dagli allevamenti intensivi, come molte aree della Pianura Padana”.
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