“Anche lei ha letto su internet di avere l’ADHD?”. Un racconto personale tra neurodivergenza e consapevolezza
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Quando mi decido a lavare i piatti, lascio sempre una tazza sporca nel lavandino. Poi in realtà può essere una forchetta o un bicchiere, ma per semplicità in questo articolo diremo che è una tazza. Questa mia caratteristica ha suscitato in chi ha diviso con me gli spazi abitativi le reazioni più varie: fastidio (“Ma cosa ti costa?”), sgomento (“Perché fai così?”), fatica (“Quando fai le cose tu devo sempre finirle io”).
Per me è sempre stata la vergogna la reazione emotiva principale, perché non riuscivo a capire come fosse possibile che la mia energia fisica e mentale per svolgere quel compito semplicemente a un certo punto finissero e non ci fosse più nessuna possibilità di portare a compimento ciò che avevo iniziato. Ho sempre saputo che c‘era un mondo dietro, il mio mondo, e ho cercato per diversi decenni di decifrarlo avendo l’assoluta certezza di poter essere la migliore detective di me stessa. E in fondo la risposta stava tutta in quella attitudine.
UNA SCATOLA TUTTA PER ME
Quando i sintomi intorno alla tazza sporca sono diventati più difficili da gestire, dai 18 anni in poi, sono stata diagnosticata nei decenni in vari modi ma sembrava sempre non esserci una scatola che potesse contenermi, perché ogni spiegazione fornita giustificava alcuni sintomi ma non risolveva l’enigma. Depressione, ansia, disturbi di personalità non riconosciuti, problemi metabolici: le strade sono state tentate tutte, senza che si arrivasse a una risposta.
Mi sono anche appassionata al dibattito sulla restituzione della diagnosi; negli Stati Uniti infatti ogni percorso di cura parte dai test e dalla diagnosi precisa mentre in Italia c’è un filone di pensiero che sostiene che in molti casi dare un nome al disagio sperimentato dalla persona possa essere negativo e portare a un atteggiamento rinunciatario. Io sapevo che per me non sarebbe stato così. Sapevo che avrei continuato a prendermi cura della mia salute mentale come ho sempre fatto da che ho memoria, ma ammetto che l’inquadramento culturale italiano non ha agevolato il mio percorso.
Posso anticipare, andando avanti velocemente alla fine del racconto, che per me – e sottolineo per me – è stato un momento di svolta estremamente positivo perché mi ha regalato non solo l’accettazione del mio modo di essere, ma anche uno stimolo aggiuntivo a conoscermi sempre meglio. La vergogna per la presunta e inspiegabile pigrizia istantanea che mi porta a lasciare la tazza sporca è diventata consapevolezza dei miei bassi livelli di dopamina, che però si impennano furiosamente quando mi trovo in una situazione di emergenza rendendomi quindi la persona che tutti vorreste accanto in caso di crisi, per esempio.
La mia sensibilità al rifiuto è diventata un’empatia fuori dal comune che mi consente di capire l’umore di tutte le persone in una stanza nel giro di pochi secondi. Insomma ho iniziato a conoscermi davvero, senza rinunciare a lavorare sulle cose meno funzionali che arrivano insieme ai superpoteri del cervello veloce.
ADHD TRA NARRAZIONI SOCIAL, MODE E PREGIUDIZI
Comunque, riprendendo il filo della narrazione che ho perso per motivi che ormai avrete compreso, un annetto fa a una festa di Natale una professionista del settore, tra una birra e un’altra, mi butta lì un “Ciò che racconti mi ricorda l’ADHD, ci hai mai pensato?”. E no, non ci avevo mai pensato all’ADHD, ma nel giro delle successive dodici ore ero ovviamente già diventata la massima esperta mondiale del settore ed ero già più che certa di aver trovato la spiegazione alla tazza sporca. E così è stato.
Alla prima seduta del percorso diagnostico lo psichiatra mi ha detto: «Anche lei ha letto su Internet che ha l’ADHD?», rivelando il grande pregiudizio che circola ormai con insistenza, ovvero che tutte le donne adulte ormai gradiscano pensare di essere neurodivergenti piuttosto che nevrotiche. Sono rimasta ovviamente spiazzata ma ho deciso di portarmi avanti con il test e gli ho risposto che sì, avevo passato moltissime ore a leggere cose su Internet e che questo mi aveva portato alla certezza assoluta di averlo. A quel punto è rimasto spiazzato lui.
Questo scambio potrebbe far sorridere ma in realtà dietro all’aneddoto si cela una verità scomoda: le bambine e le donne fanno molta fatica a farsi diagnosticare l’ADHD. Sì, anche se vi sembra di vedere tanto movimento social sul tema, i numeri parlano di altro. Ci sono fior di ricerche e di dati a supporto di questa affermazione – e ovviamente li ho letti tutti! – ma per lo scopo di questo racconto, che parla della mia esperienza personale, mi limiterò a raccontare ciò che ho compreso io.
L’esperienza femminile è diversa anche in questo ambito perché spesso le bambine e le donne con ADHD presentano sintomi diversi, meno iperattività e più disturbi di ansia e depressivi e inoltre – sorpresa sorpresa – mascherano meglio. E più crescono, più nascondono i loro sintomi, purtroppo spesso fino al punto di rottura. Aggiungiamoci che negli anni Ottanta e Novanta era sufficiente andare bene a scuola e non presentare gravi problemi nella socialità per convincere anche i genitori più attenti che tutto andasse bene, e la frittata è fatta. Ora, avete capito perché su Instagram è pieno di reel di 30/40enni che vi parlano di ADHD. Lasciateci essere di moda, dobbiamo riposarci.
PS. Ora la tazza la lascio nel lavandino senza patemi e le sorrido pure
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