Terrestra, il progetto agricolo romagnolo, antispecista ed ecofemminista
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Ravenna, Emilia-Romagna - «La Grande Distribuzione Organizzata ti strangola, io ci ho rimesso la casa. Pretendono investimenti molto onerosi, ci sono percentuali di scarto alte, ti pagano dopo 12 mesi. Lavoravo costantemente in perdita». Terrestra è nata così, dalla situazione in cui si era trovata Silvia con la sua azienda agricola biologica qualche anno fa. E dalla volontà di sostituire un modello di produzione e consumo insostenibile – quello della GDO – con uno che invece funziona, quello della CSA.
Tre letterine che fanno tutta la differenza del mondo. CSA infatti sta per Community Supported Agricolture, ovvero agricoltura supportata dalla comunità. Ne abbiamo già parlato diffusamente in passato e se volete saperne di più vi invito a leggere le storie di Arvaia e di Semi di Comunità, due fra le CSA più attive in Italia. Ma torniamo a Terrestra.
Sono seduto di fronte a Silvia con il taccuino appoggiato su uno dei tavoloni che popolano il cortile dell’azienda agricola. L’occasione è Licheni, il festival dedicato a decrescita ed ecologia queer di cui vi ho parlato qui. L’ho strappata agli incessanti impegni richiesti dalla terra, dagli animali non umani con cui convive e da quelli umani che stanno animando la CSA in questi giorni. Un incontro – quello fra Terrestra e Licheni – che va nella direzione di creare momenti condivisi di divulgazione e socializzazione fra mondi diversi, funzionali ad alimentare una massa critica su cui fondare nuovi modelli di vivere, di abitare, di lavorare, di alimentarsi.
LA STORIA DI TERRESTRA
«La CSA nasce nel periodo post Covid – racconta Silvia – dalle ceneri della mia azienda agricola biologica con cui facevo vendita diretta, oltre a essere fornitrice della GDO. Non sono partita da zero quindi: tutto il capitale umano della vecchia attività si è riversato nella CSA». E anche il capitale di competenze ed esperienze che Silvia aveva accumulato frequentando l’ambiente delle CSA appunto – nello specifico Arvaia, a Bologna – e del movimento delle città in transizione.
L’endorsement è arrivato infatti da Stefano Peloso, socio fondatore della CSA bolognese, che ha appoggiato il progetto, sostenuto Silvia e presentato Terrestra al circuito dei Gruppi d’Acquisto Solidale della zona. «Siamo partiti con 19 soci e ora siamo 60, tutti raggiunti con il passaparola. E abbiamo anche una lista d’attesa abbastanza fitta di persone che voglio associarsi. L’età media è fra i 35 e i 60 anni, ma ultimamente diversi giovani si sono avvicinati a Terrestra. Molti soci contribuiscono in base alle loro competenze, ad esempio uno che è programmatore ha sviluppato un’app per la gestione dell’attività agricola e la distribuzione dei prodotti che funziona molto bene».
UN NOME DECLINATO AL FEMMINILE
Il nome Terrestra non può non incuriosire e infatti una delle prime domande che rivolgo a Silvia è come è stato scelto. «La campagna è un ambiente in cui il modello patriarcale è egemone», mi risponde. «Io stessa faccio parte delle quote rosa della CIA, ma mi rendo conto che si tratta di un ruolo di mera rappresentanza, una facciata. Le agricoltrici di fatto sono emarginate, non parlano del loro lavoro».
«Ogni tanto leggo qualche storia incoraggiante di donne che tornano alla terra, ma quasi sempre svolgono attività collaterali, per esempio di trasformazione. La coltivazione vera e propria è gestita dagli uomini e infatti le aziende delle zone più produttive sono tutte al maschile, quelle al femminile sono relegate in montagna o in aree considerate marginali». La declinazione al femminile del nome della CSA vuole dunque essere una rivendicazione, un atto di ecofemminismo che fra l’altro di sposa perfettamente con temi sul tavolo di Licheni.
ANTISPECISMO
Un altro dei capisaldi di Terrestra è l’idea che è possibile e necessario costruire un nuovo modello di convivenza fra esseri umani e altri animali. Me ne sono reso conto durante il tempo trascorso qua per partecipare a Licheni: l’organizzazione del festival è stata pensata per arrecare il minor disturbo possibile agli abitanti non umani della CSA, dalla gestione degli spazi al volume della musica. Ovviamente questo impegno si riscontra anche nell’attività agricola: «Per concimare ad esempio non usiamo sostanze di origine animale come il letame, ma solo compost vegetale», spiega Silvia.
Fra le varie componenti della CSA ci sono sensibilità differenti, ma tutte le persone concordano sull’adottare un approccio che rifiuta l’idea del dominio umano e ricerca modelli di convivenza e di inteconnessione fra i vari esseri viventi. Infatti Terrestra fa parte del Vegan Organic Network, la rete globale di aziende agricole vegane. «Vogliamo che questo sia un safe place anche per gli esseri non umani», sottolinea Silvia. «Abbiamo un tavolo di scambio di ricette fra soci e sono tutte vegane».
PAROLA D’ORDINE: FARE RETE
A proposito di network, uno degli aspetti su cui Silvia insiste di più è l’importanza dell’attività di coordinamento che svolge la Rete Italiana delle CSA, attiva dal 2019. «Ne fanno parte le CSA italiane o quantomeno quelle che accettano di creare uno statuto, di associarsi al network e che svolgono quella agricola come attività principale. Gli incontri sono frequenti e in questo momento il focus è sul concetto di ibridazione ovvero risolvere le necessità dei nodi della rete attraverso la condivisione di soluzioni già sperimentate».
Un altro obiettivo è quello di favorire la nascita di questo tipo di realtà sul territorio. Si tratta di un punto particolarmente importante e delicato perché il percorso che porta alla creazione di una CSA non è semplice, richiede contemporaneamente un attento lavoro di supporto e coordinamento e una forte spinta dal basso, oltre al coinvolgimento del territorio. A questo proposito, Silvia tiene a sottolineare il rapporto di dialogo e rispetto che intercorre con il Comune di Sant’Agata e con il territorio circostante.
L’intervista si trasforma in una chiacchierata informale a cui si aggiungono altre persone, i discorsi prendono direzioni nuove, è un piacevole esulare dai temi da cui siamo partiti. Fra una suggestione e l’altra Silvia ricorda un episodio avvenuto durante la discussione di un bilancio di Terrestra: «L’assemblea ha osservato che lo stipendio dei soci che lavorano, come me, era troppo basso e così ha deciso di aumentare la quota associativa per raccogliere un extra budget per adeguare i compensi». Piccoli segnali di grande umanità, passi decisi in direzione opposta rispetto a quella – che a volte appare così ineluttabile – dell’agribusiness.
«Le aziende agricole stanno diventando dei grandi latifondi», osserva Silvia in conclusione. «Qui in Romagna storicamente c’è sempre stata un’agricoltura di prossimità, ma oggi non è più così. Terrestra va considerata una micro azienda». Eppure – la mia interlocutrice ne è sicura – non ci sono alternative: il modello della CSA è la salvezza dei piccoli agricoltori.
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