17 Set 2024

Perdere un figlio: quella volta, la prima, in cui mi sono sentita una doula

Scritto da: Valentina Tibaldi

La prima volta che si è sentita una doula e che ha agito come tale, Valentina l’ha fatto per sé stessa: per creare quello spazio di accoglienza e non giudizio che ogni donna e mamma merita, anche e soprattutto in momenti sconvolgenti come un lutto perinatale. ecco il racconto della sua esperienza, che in Italia è quella di una donna su quattro, troppo spesso lasciata sola nell’elaborazione del lutto.

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Durante la formazione per diventare doula, nel 2018, le insegnanti mi assegnarono il compito di riflettere su un quesito: quando mi sono sentita, per la prima volta, una doula? Una domanda scomoda, perché la verità è che, fino all’inizio del percorso di formazione, non mi sono mai sentita davvero una doula. Sul piatto della mia bilancia personale ci sono da sempre partecipazione – discreta, in fondo resto piemontese –, disponibilità ad ascoltare – tanta, dicono –, empatia – troppa? Forse giusto un filo oltre il limite – e nessuna esperienza. “La ragazza è intelligente ma non si applica”, insomma.

Nel mio curriculum precedente, nessuna mamma da accompagnare nell’avvicinamento al parto, nessuna mano da stringere durante le contrazioni o neonati da sorreggere per dare respiro ad amiche troppo affaticate. Almeno fino a quel momento. Perché è stato proprio nel babyparking torinese in cui si teneva il corso, in un’aula con gli utensili da cucina in miniatura e delle buffe – non tutte comode – poltrone colorate che è accaduto per la prima volta. Che, in mezzo a un cerchio di donne, captando in quegli occhi sensibilità così simili alle mie, recuperando sicurezza attraverso la loro traspirante energia, ci ho creduto davvero: potevo sul serio diventare una doula.  

doula

In quel weekend ho fatto il salto mentale, emotivo ed emozionale che mi ha permesso di sentirmi già potenzialmente parte di qualcosa di importante. E così mi sono riproposta di agire come doula alla prima occasione. Certo, non avevo preventivato che sarebbe accaduto così presto, né immaginato l’identità della mia prima “cliente”, né tantomeno previsto la poco auspicabile situazione in cui mi sono trovata a esercitare. 

Era lunedì, il primo giorno successivo alle lezioni. Giornata normale fra casa e lavoro. Eh, però c’erano delle piccole perdite. Proprio piccole, ma ero incinta e non ero tranquilla. Sentita l’ostetrica che mi stava seguendo, andai al pronto soccorso per un controllo. Lì, la notizia: avevo perso il mio bimbo, non c’era più battito. Il tempo si fermò, in stand-by per un attimo. Ma davvero? Davvero, davvero? Faticavo a convincermi di averlo quando era nella pancia e ora ci credevo ancora meno, che non ci fosse più. O meglio, che c’era ancora ma non viveva più. 

“Vuole fare il raschiamento? Vuole provare a espellerlo naturalmente?”. Nella testa, nel cuore e nei polmoni un cataclisma: un buio squarciato da milioni di schegge luminose e pungenti, meno fiato di un palloncino sgonfio, eppure era già impietosamente tempo di prendere decisioni. Ed eccola lì, la mia parte efficiente, che rispondeva puntuale. “Naturalmente. Io allatto ancora la mia bimba grande, non posso fare un’anestesia totale”. Mentre fra le lacrime che sgomitavano per uscire pensavo che non lo volevo “espellere” per niente – ma che verbo è, per un bambino? –, che volevo tenerlo lì per sempre, all’interno di quel disprezzabile cencio che era diventato il mio corpo. 

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Ricordo il ritorno in auto, sgomenta. E poi, a casa, finalmente nel bozzolo. Non posso affermare di avere consapevolmente agito come doula di me stessa, perché quel giorno – giunta nell’intimità delle mura domestiche, sul divano che aveva smesso di farmi da ufficio – mi mancava la lucidità necessaria. Volevo solo stare male, in pace. Volevo stringermi le ginocchia al petto e diventare ermetica, a chiusura stagna. Volevo prendermi a pugni, e sputarmi in faccia.

Ma ormai l’esperienza del corso delle doule l’avevo vissuta, quell’energia l’avevo respirata, quegli occhi di donne ansiose di fare e stare li avevo guardati. Fresca di tutti questi impulsi, dopo i pressanti sensi di colpa iniziali che mi toglievano il fiato, ce l’ho messa tutta: lentamente, progressivamente, ho cercato di guardarmi dall’esterno con il massimo di empatia possibile e di ritagliarmi uno spazio. Di darmi del tempo per ascoltarmi, per soffrire e per provare a smettere di giudicarmi. Ho tentato di creare per me stessa quell’area di sicurezza che una doula deve saperti garantire. 

Sostegno pratico ed emotivo, come da manuale: mi sono informata sui farmaci che in ospedale mi avevano consigliato per favorire le contrazioni e ho chiesto aiuto quando mi sembrava di non farcela da sola. E poi mi sono cucinata i miei piatti preferiti, sono andata un giorno al mare e mi sono concessa di ballare e ridere con la mia bimba. Ho parlato invece di stare zitta, ma ancora di più ho scritto. Ho scoperto lo yoga della risata, che si è rivelato un ponte fenomenale con mio marito, una pratica capace di restituirci un linguaggio comune, a dispetto di tutto.

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Ho meditato e ho pian piano provato a recuperare il rapporto con me stessa, offrendomi tutta la comprensione di cui sono stata capace. Ho cercato di donarmi, per quanto possibile in questa strana alternanza di ruoli, l’esperienza di doula che avrei voluto se la gravidanza fosse continuata. Consapevole – e ricordo bene quanto questa convinzione mi spiazzasse con la sua potenza – di avere il sostegno delle mie compagne doule per superare quel che rimaneva di irrisolto. Come una grande famiglia di sorelle. 

Sono stata fortunata, anzi privilegiata, per tutta la sensibilità che ha accompagnato questa morte. Nei momenti in cui la rivivo – ancora bagnati di lacrime di tenerezza e tributo alla potenza di una piccola, grande esistenza – non posso che pensare alle donne, alle famiglie che si trovano ad affrontare un’esperienza simile in solitudine. 

Nella testa, nel cuore e nei polmoni un cataclisma: un buio squarciato da milioni di schegge luminose e pungenti, meno fiato di un palloncino sgonfio

Una donna su quattro, nel mondo, perde un bambino durante la gravidanza o nel primo anno dopo la nascita. Eppure, ancora oggi, spesso la società considera il lutto perinatale “un fatto privato”, interamente a carico della madre, della coppia o al limite dei familiari più stretti. Vale la pena riflettere sulle parole dell’associazione Ciao Lapo onlus, che da vent’anni in Italia si occupa di lutto perinatale, offrendo strumenti gratuiti, assistenza e supporto costante a chiunque ne abbia bisogno o voglia approfondire il tema per essere, a sua volta, di sostegno.

Un punto di riferimento essenziale, competente ed empatico perché fondato sull’esperienza, cui rivolgersi in caso di necessità: “Il lutto perinatale è un’urgente questione di salute pubblica, perché riguarda, solo in Italia, una donna su sei, una coppia su sei, una famiglia su sei. Il lutto perinatale ha ricadute significative sulla salute e sul benessere psichico della donna, della coppia e degli altri figli; ha inoltre costi molto elevati, sia diretti che indiretti […]. Una società priva di una progettualità chiara e definita per i cittadini e le cittadine in lutto alimenta la solitudine delle famiglie e amplifica le difficoltà lutto-correlate, rendendo l’elaborazione più lenta e più difficile. Ci vuole un villaggio, per accompagnare le famiglie ad attraversare il lutto”.

Il 15 ottobre ricorrerà la Giornata internazionale del lutto perinatale – Baby Loss Awareness Day. Fasci di luce rosa e azzurri illumineranno, nel mondo, molti edifici, per dedicare la giusta attenzione a questo tema scomodo, doloroso, sottovalutato… e taciuto. 

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