11 Set 2024

Jung e le vie dell’anima: qual è il rapporto fra scienza e religione?

Qual è il rapporto fra scienza e religione? Come si è evoluto nel tempo? Ha davvero senso creare un dualismo, una divisione fra chi crede e chi non crede? Proviamo a rispondere a queste domande lasciandoci ispirare dalle riflessioni di Gianluigi Gugliermetto dell'associazione Spiritualità del Creato sul pensiero di Carl Gustav Jung.

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Un grande e profondo pensatore con cui collaboro da alcuni anni, Matthew Fox, spiega spesso la situazione in cui si trova la cultura occidentale moderna come il risultato del divorzio tra scienza e religione avvenuto nel XVII secolo. Come molti divorzi, anche questo è stato necessario e di fatto ha portato a una tregua tra le due parti. Tuttavia, a lungo andare, questa tregua ha prodotto disastri.

Affidando alla religione il compito di occuparsi esclusivamente dell’anima e alla scienza di occuparsi esclusivamente della realtà fisica – intesa come priva d’anima –, ci siamo trovati di fronte a un mondo concepito come mero meccanismo senza senso intrinseco. Non solo: la nostra anima non ha più potuto godere dell’estasi dell’unione con il cosmo. O meglio, attraverso la poesia, l’arte, l’amore e così via l’anima ha continuato a vivere, a sentire profondamente e a unirsi estaticamente con il tutto, però l’ha fatto quasi di nascosto.

Per lungo tempo gli scienziati si sono attenuti ai patti, non occupandosi più dei valori che l’anima percepisce nella realtà delle cose, ma solo di ciò che può essere manipolato e usato. Anche gli specialisti della religione per molto tempo si sono attenuti ai patti, occupandosi solo dell’anima senza le cose, senza la materialità, cioè di un’anima rattrappita e chiusa su di sé, finendo per ridurre la spiritualità a uno sterile moralismo senza vita.

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Dopo circa tre secoli si è affacciata sulla scena la psicanalisi e con essa anche la psicologia analitica di Carl Gustav Jung. Presentandosi come scienza, la psicanalisi di Freud non poteva occuparsi né di valori morali né di simboli religiosi, se non per ridurli a impulsi inconsci o emozioni non espresse. Jung però non è rimasto nei limiti della disciplina che aveva contribuito a fondare. Ha iniziato a esaminare la realtà psichica non riducendola a qualcos’altro, ma ascoltandola e lasciando che anche l’inconscio presenti le sue ragioni.

Nei sogni, Jung non leggeva primariamente la frustrazione rispetto a ciò che le persone non riescono a ottenere da svegli, ma le direzioni che l’anima cerca di dare agli individui per sviluppare tutte le loro potenzialità. Ma l’anima non sarebbe dovuta essere il campo esclusivo della religione? E lo studio della mente non sarebbe dovuto rimanere strettamente nel campo scientifico? A mio modo di vedere, Jung ha portato una rivoluzione nella cultura occidentale mostrando che la completezza dell’essere umano risiede nell’integrazione tra gli approcci alla realtà e non nella loro separazione.

Mi sembra che sia giunto il tempo in cui mettiamo da parte la divisione tra chi “crede” e chi “non crede”

Nel suo studio dei tipi psicologici, di cui ricorre il centenario, Jung afferma il valore del pensiero e della razionalità scientifica, ma anche quello dell’intuizione che “legge” i simboli religiosi, come anche del sentimento che “sente” il bene e il male e della sensazione che percepisce la corporeità in una maniera specifica e unica. Volente o nolente, Jung ha spalancato le porte al ritorno della spiritualità intesa come un modo di considerare la vita umana come un intero, oltrepassando la separazione netta tra pensiero (scienza) e intuizione (simboli religiosi) e dando anche lo stesso peso al sentimento e alla materialità.

Nel mio libro La danza del sacro ho messo a confronto gli studi di Jung con quelli di Fox. Entrambi sono interessati al tutto dell’umano ed entrambi lo descrivono per mezzo di quattro “posizioni” o “sguardi” che in Fox diventano le quattro viae della spiritualità del creato. Partendo da un’intuizione di Antonio Dorella, ho verificato con stupore e piacere che le due visioni quadripartite, quella di Jung e quella di Fox, si sovrappongono molto bene l’una all’altra e si possono stimolare a vicenda.

La psicologia e la spiritualità non hanno più bisogno di guardarsi in cagnesco, replicando la contrapposizione dell’era moderna tra scienza e religione, ma possono creare insieme un nuovo spazio in cui l’anima possa crescere e prosperare. Senza la necessità di aderire a dogmi religiosi o scientifici.

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Questo tipo di spiritualità è laica, ma non nel senso che aborrisce ciò che è religioso, ed è corporea, sentimentale e intuitiva, ma non nel senso che nega i risultati scientifici. È proprio il dualismo tra visioni opposte dell’umano che essa vuole superare, alla ricerca di un’integrazione di livello più alto. Alcuni amici hanno deciso di chiamarla “mistica evolutiva”, che è anche diventato il nome di un’organizzazione e di un progetto culturale. Il nostro tentativo è di comunicare l’aspetto dinamico della crescita personale e sociale collegandolo alle nostre radici mistiche, purtroppo sepolte dalla cultura moderna.

Vocatus atque non vocatus Deus aderit è una famosa espressione adoperata da Jung che significa all’incirca che il divino è un’esperienza che accade sia che si invochi Dio oppure no. Mi sembra che sia ampiamente giunto il tempo in cui mettiamo da parte la divisione tra chi “crede” e chi “non crede” per occuparci della cosa stessa, del senso della vita, che non è un oggetto statico o qualcosa che si può ricevere, ma consiste in un percorso interiore che è alla portata di ognuno.

Leggi anche l’articolo di Antonio Dorella sulla psicologia analitica di Jung.

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