La ricetta del pedagogista Daniele Novara per cambiare la scuola: “Basta voti e lezioni frontali”
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Settembre è per eccellenza il mese del rientro in classe. Tra pochi giorni ricomincerà un altro anno di campanelle, spiegazioni, compiti a casa, capitoli imparati a memoria, esami, pagelle: il solito rito che si ripete uguale a se stesso, sempre più stanco e anacronistico, portato avanti per inerzia da generazioni di insegnanti e allievi, spesso altrettanto esasperati e demotivati. Ma è possibile che non siamo ancora riusciti a trovare modelli alternativi, più moderni, per organizzare e vivere la scuola?
In realtà questi modelli esistono eccome. Uno dei più interessanti porta la firma del pedagogista Daniele Novara, fondatore del Centro psico-pedagogico per l’educazione, che lo ha raccontato in un libro – Cambiare la scuola si può – e diffuso in un convegno dell’aprile scorso, emblematicamente intitolato “La scuola non è una gara”.
Il ciclo di studi sul quale più si concentrano le critiche di Daniele Novara è quello delle medie e in particolare delle superiori, «abbarbicato al modello gentiliano, molto arcaico e tradizionalistico», racconta a Italia che cambia. «Si ripropone sempre la solita sequenza lezione-studio-interrogazione, con gravi danni per la motivazione degli alunni. Non è un caso se i ragazzi stanno abbandonando il liceo classico, secondo me giustamente, per preferire quelli scientifici e tecnologici, che non hanno il latino, sono più applicativi e abbordabili».
Qui arriva la prima sorpresa, almeno per noi che non siamo specialisti in pedagogia e l’unico contatto con la scuola l’abbiamo avuto in gioventù, quando ci è capitato di stazionare in prima persona tra quelle aule. Ci siamo abituati a pensare che il modo migliore per apprendere, forse addirittura l’unico, sia ascoltare passivamente per ore e ore un professore seduto alla sua cattedra, lottando contro la naturale distrazione e i tempi di attenzione ridotti.
Eppure non è affatto così, anzi. Questo schema nacque in tutt’altra epoca e con tutt’altri presupposti: «La struttura lezione-scuola-interrogazione risale all’Ottocento – spiega il pedagogista –, quando studiavano solo le classi di élite, che a casa disponevano di libri, avevano il culto della disciplina, dell’obbedienza e della ripetizione: è tratta dalle istituzioni militari e in parte da quelle ecclesiastiche. In compenso, non trova riscontro né nell’apprendimento né tantomeno nella storia della pedagogia».
A forza di far assomigliare le scuole a delle piccole caserme, si è finiti per chiedere agli studenti semplicemente di eseguire gli ordini del docente, privandoli di qualunque spazio per esprimere il proprio contributo unico e creativo, per dar sfogo alle proprie riflessioni, esplorazioni e interessi personali. «La lezione è un dispositivo difficilissimo, che non ha una tradizione pedagogica: come è noto era uno strumento medievale, precedente l’arrivo dei libri stampati, quando in aula erano i lettori a recitare i manoscritti degli amanuensi e gli studenti ascoltavano, più o meno in silenzio», spiega Daniele Novara.
«Da Gutenberg in poi – prosegue –, quando si può leggere per conto proprio, non ha più ragione di esistere: è quantomeno grottesca, diciamo pure demenziale. Semmai le scienze pedagogiche ci insegnano che l’apprendimento ha molto a che fare con la partecipazione: gli alunni imparano se li si coinvolge attivamente in laboratori scientifici, letterari, storici, artistici». Non limitandosi a ripetere a pappagallo le informazioni, dunque, ma applicandole alla vita reale.
L’altro tema centrale è quello del giudizio, tuttora basato prevalentemente su voti numerici, che trasformano la scuola in una competizione nella quale uno solo vince e tutti gli altri ne escono sconfitti: «La valutazione non può derivare dall’interrogazione, che ricorda moltissimo l’interrogatorio poliziesco: semmai, dalla necessità di cogliere ciò che il ragazzo sta imparando, all’interno di un processo che analizza con attenzione i suoi punti di partenza personali e i suoi successivi progressi, la sua crescita. Concentrarsi sulle performance assolute invece riduce la scuola a una sorta di gara, dove il voto la fa da padrone. Non si può mettere un’asticella unica e fissa e pretendere che la saltino tutti, compresi gli zoppi».
«Il senso della scuola semmai è quello di una comunità di apprendimento, in cui si sperimenta, si fanno domande, si impara dai compagni, addirittura ci si diverte. Oltretutto andare nella direzione di una valutazione evolutiva ci permetterebbe anche di risolvere l’annoso problema dell’eccesso di insegnanti di sostegno e neurodiagnosi, un vero flagello per i nostri ragazzi, presi di mira da una medicalizzazione impropria, il più delle volte non corrispondente alla realtà». Come pare che avesse detto Einstein, «ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido».
O meglio ancora, come scrisse Plutarco già duemila anni fa, «gli studenti non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere». Non serve a niente rimpinzarli di nozioni che dimenticheranno il giorno dopo: molto più produttivo è invece fare leva sulle attitudini e predisposizioni naturali di ciascuno. «Paradossalmente, nel tempo è prevalso un modello antipedagogico, meccanicistico, secondo cui bisogna trasmettere le nozioni, incidere i contenuti nella mente dei ragazzi, invece di svilupparne la passione, l’interesse, la motivazione, come al contrario sostenevano Rousseau, Pestalozzi, Fröbel o la Montessori. Non mi sembra auspicabile il ritorno della figura archetipica della “brava bambina” da libro Cuore, che studia, studia, studia e si rovina l’adolescenza».
Così, l’unica motivazione superstite, nel panorama tradizionale della nostra scuola, è quella negativa: la paura dell’insufficienza, lo spettro della bocciatura da evitare a tutti i costi. Un altro elemento fortemente diseducativo, perché ci insegna a temere e a rifuggire l’errore. «Come si fa a imparare senza sbagliare?», si chiede Daniele Novara.
«È noto e stranoto che la paura dell’errore è più pericolosa dell’errore stesso: ti blocca, ti impedisce di vivere la scuola come ambiente di crescita, ti contrae in atteggiamenti difensivi e ansiosi. Tutti i sondaggi e le ricerche su questo tema sono inequivocabili e ci rivelano che gli alunni sono contrarissimi al sistema del voto. I ragazzi se ne fregano dei voti, vogliono andare in classe per vivere un’esperienza positiva, in cui credono fortemente. Ricordiamoci che durante il Covid erano loro a chiedere di tornare a scuola, non gli insegnanti. Altro che pigri e indolenti, come li definiscono i saputelli e i moralisti».
Questo stesso approccio vale anche per gli eventuali problemi disciplinari: «Quando è stata proposta la reintroduzione del “cinque in condotta” con bocciatura automatica ho espresso sistematicamente un’idea. Se stabiliamo che l’alunno che si è comportato male merita una pena, quando lo bocciamo la sanzione diventa fermarsi a scuola un anno in più. Insomma, la scuola diventa un luogo di espiazione, una specie di carcere: è agghiacciante. Gli insegnanti non sono guardie carcerarie, semmai devono aiutare chi ne ha più bisogno, ovvero proprio coloro che non si comportano bene, che sono in difficoltà, magari hanno fatto anche qualcosa di sbagliato. La scuola è apprendimento, non colpevolizzazione. Dobbiamo creare un’alleanza con le nuove generazioni, non condannarle».
Insomma, la nostra scuola così com’è non funziona, ma guai a pensare che sia senza speranza. Riformarla è certamente possibile, a patto che prima di tutto si cambi il modo in cui la concepiamo: «I burocrati del ministero stanno andando in una direzione che non porta da nessuna parte, se non nell’archeologia – chiosa il pedagogista –, bisogna fermare questa continua retromarcia».
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