Infinito restare: diario di un viaggio nell’Appennino centrale
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L'Aquila, Abruzzo - «Non è facile restare dove tutti se ne vanno. Il ripopolamento dei borghi però non può diventare un moto costrittivo, un macchinoso progetto di ingegneria sociale». Per Savino Monterisi, giornalista abruzzese, scegliere di tornare a vivere sull’Appennino è stata una scelta non eroica – che asseconda certe narrazioni sbagliate sulle aree interne – ma possibile. A molti che vorrebbero infatti è ancora preclusa. Per chi invece non vuole farvi ritorno, è fuori discussione. Dopo gli anni dell’università a Roma, è tornato a vivere a Bagnatura, una frazione del Comune di Pratola Peligna (AQ), ai piedi del monte Morrone.
LA GEOGRAFIA DELLO SPAZIO VISSUTO
Nel suo ultimo libro, Infinito restare, pubblicato due anni fa da Radici Edizioni, un piccolo editore indipendente, l’autore è come se si spingesse alla ricerca del proprio “spazio vissuto” (“espace vécu”), un concetto teorizzato negli anni Ottanta dal geografo francese Armand Frémont, il quale definiva la regione non in base ai confini amministrativi ma per come veniva vista – vissuta, appunto – dai suoi abitanti. “Uno spazio intermedio tra i luoghi dell’immediata quotidianità e i territori più lontani, tra la realtà dei limiti economici e l’utopia dei sogni”, scrive Frémont ripreso dall’autore di Infinito restare.
«A Roma mi sono sempre sentito fuori luogo – riconosce Monterisi a un certo punto del suo viaggio – anche quando vivere in città mi piaceva. Avevo un paese dentro e anche quando stavo bene lontano da casa, sfuggiva sempre un po’ il senso delle cose. Soltanto adesso capisco che quel pezzo di paese che portavo dentro non aveva mai smesso di agire, di farsi presente. Mi abitava, come per anni io avevo fatto con lui». Per l’autore di Infinito restare, tutto l’Appennino, dal reatino al basso Molise, finisce per identificarsi con quello spazio vissuto teorizzato da Frémont e che in molti abitanti di quei luoghi si traduce nel più immediato concetto di “casa”.
SUL SIGNIFICATO DI RESTARE
Diario di viaggio, a tratti reportage, Infinito restare ha una forma mutevole. La varietà di genere – riconosce l’autore – vuole restituire la complessità di quanto viene raccontato, in una scrittura che si fa essa stessa viaggio: «La mia scrittura è un viaggio, una continua ricerca». Non è infatti la prima volta che Monterisi – già autore di Cronache della restanza – scrive di paesi e aree interne, da giornalista e attivista.
«Non sono temi per i quali a un certo punto si giunge a una soluzione o verità unica definitiva. Il discorso che riguarda l’abitare i paesi subisce continue evoluzioni sia pratiche, legate alle vite delle persone, ma anche di immaginario, legate al modo in cui pensiamo questi luoghi». Per chiarire a cosa allude nello specifico, Monterisi pensa ad esempio alla questione ecologica, molto meno presente nel dibattito pubblico dieci anni fa e quindi del tutto assente dal discorso sulle aree interne. «Oggi è il contrario. Anche perché l’Appennino è diventato un laboratorio di ecologia. Abitarlo è una delle pratiche ecologiche più interessanti che ci sono in questo momento».
Ma non si può scorgere l’identità di un luogo – nuova, moderna, custode del passato o protesa verso il futuro che sia – senza prima destrutturate un’idea romantica dei paesi, oltre alle convinzioni sbagliate e dannose per chi oggi vive questi luoghi e non può più farlo come un tempo. Nel suo scrivere e viaggiare, l’autore di Infinito restare si rifà molto spesso al lavoro di Vito Teti, a cui riconosce l’indiscusso merito di «aver dato altissima dignità umana, valenza accademica e forma letteraria e poetica alle scelte di ritorno, di restanza e di arrivanza».
C’è infatti chi non è mai andato via da questi luoghi, chi li sceglie senza averci avuto alcun legame prima e chi vi fa ritorno. «I restanti – precisa Monterisi riprendendo agli insegnamenti di Vito Teti – sono coloro che abitano i luoghi con proattività. Non è semplicemente andando ad abitare un piccolo paese o ritornando a vivere in un paese di montagna che ci si può definire restanti». Nella descrizione dei restanti emerge certamente il paradigma della cura dei luoghi e la volontà di scrollarsi quella rassegnazione che invece schiaccia chi non è mai andato via.
Restare quindi “non significa soltanto contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere e affidare ad altri nomi, soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo”, si legge in Infinito restare. Quanto “porsi il problema di riguardare i luoghi, di proteggerli, di abitarli, renderli vivibili. I ruderi e le rovine stabiliscono collegamenti tra coloro che sono rimasti e coloro che sono partiti”.
NON È UN PAESE PER TURISTI
A far morire i paesi delle aree interne non è solo lo spopolamento quanto la loro turistificazione. Monterisi critica fortemente l’idea di «paese presepe», come «luogo cristallizzato nel tempo, dove le rievocazioni folkloristiche hanno un effetto totalizzante sull’idea stessa di paese e proiettano all’esterno un’idea di un luogo fermo nel tempo». I paesi per sopravvivere devono evolversi. Racconta ad esempio di Villa San Sebastiano, una frazione montana in cui è stato riattivato un forno di comunità.
«Tutti gli abitanti dicono che da quando Lucia Tellone [rinomata chef a livello internazionale, ndr] ha riacceso il forno, il paese è rinato. Questo progetto nell’ottica della retroinnovazione ha riportato in vita un’antica tradizione non per farne una rappresentazione folkloristica, ma per la comunità, riattivandola a partire dagli abitanti stessi e non dal turismo come spesso si crede di poter fare. C’è bisogno ridimensionare il ruolo del turismo a ruolo di economia complementare quale è», sottolinea Monterisi.
E a proposito di questo, ribadisce che non tutti i paesi sono graziosi borghi. «Trasformare tutti i paesi in borghi li rende luoghi per turisti e nient’altro». La soluzione non è lasciare questi luoghi alla mercé dei turisti, ma neppure blindarli limitandone l’accesso. Per l’autore di Infinito restare, i paesi dell’Appennino devono preservare la propria identità di «luoghi di transito e di gente transumante, quali sono sempre stati per natura e sicuramente per sopravvivenza».
A uccidere i paesi è soprattutto l’assenza di servizi primari. Infrastrutture, mezzi pubblici, la chiusura dei presidi sanitari e l’accorpamento dei poli scolastici per un crescente calo degli iscritti. A chi resta, nel vuoto lasciato ingiustamente dallo Stato, l’arduo compito non solo di “mantenere il sentimento dei luoghi, ma anche di “raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio”.
Non tutti hanno il privilegio di poter tornare o di un lavoro da remoto: la mancanza di opportunità e soprattutto di servizi li tiene lontani. Allo stesso tempo tornare ad abitare i propri luoghi non è il sogno di tutti, ma non dovrebbe essere precluso a chi vuole ma non può. «Non tutti hanno un lavoro molto flessibile da poter lasciare la città: i paesi non possono rinascere solo grazie a questo in assenza dei servizi essenziali», conclude Monterisi.
«E sull’andare e il restare, nessuno dovrebbe essere obbligato in una direzione o in un’altra, come non credo che la mia sia stata la scelta giusta per tutti. Da insegnante lo dico sempre ai miei studenti: andate via da qui a vedere com’è il mondo e se vi farà felici, solo allora, potrete tornare».
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