PFAS: l’insospettabile ubiquità degli inquinanti eterni
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Non a caso le chiamano inquinanti eterni, le sostanze poli e perfluoroalchiliche meglio conosciute come PFAS: quattro lettere che nascondono una delle più preoccupanti – e ancora non abbastanza note – minacce ambientali e sanitarie, interamente dovuta all’azione antropica. Impossibili da degradare, i PFAS si accumulano nel nostro organismo per anni e permangono nell’ambiente per sempre. Le tracce di questi derivati del fluoro sono state trovate nell’acqua potabile, nella placenta, nel latte materno, nel sangue umano. Ovunque.
Ma come mai non si conoscono ancora abbastanza? Giuseppe Ungherese, un dottorato di ricerca in ecologia, dal 2015 responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia e autore di “PFAS. Gli inquinanti eterni e invisibili nell’acqua”, edito da Altraeconomia, cerca di portare alla luce, in un saggio scorrevole e accurato, i numerosi capitoli oscuri di questa storia.
Un «copione» che si ripete – scrive nel libro – disseminato di bugie, dati taciuti e insabbiati per decenni dalle multinazionali produttrici degli inquinanti eterni, oltre al silenzio colpevole e l’intervento tardivo delle istituzioni preposte alla tutela della salute pubblica. Un’inchiesta minuziosa che condensa nove anni di lavoro sul campo spesi a rivelare all’attenzione pubblica la minaccia dei PFAS.
Un viaggio di denuncia da Parkersburg, West Virginia (USA), ad Anversa (Belgio) a Trissino (VI), sulle tracce dei tentativi di occultamento e depistaggio delle colpevoli DuPont, 3M, Mitenitra, leader nella loro produzione. Ce ne parla Giuseppe Ungherese in questa intervista, senza mai tralasciare il ruolo imprescindibile della società civile in questa storia atroce di razzismo ambientale e riscatto sociale.
Spesso ancora poco conosciuti, i PFAS sono una minaccia sanitaria e ambientale per numerosi e inaspettati luoghi del pianeta. Il tuo è un reportage dettagliato e drammatico sugli inquinanti eterni. Quando hai iniziato a occupartene?
Da molti anni, a dire il vero. Arrivo dal mondo accademico e sono specializzato in ecotossicologia, ovvero ho sempre studiato l’impatto delle sostanze chimiche sull’ambiente e sugli organismi. Durante il mio dottorato di ricerca, non mi sono mai occupato direttamente dei PFAS. Da quando lavoro per Greenpeace, invece, sono diventati per anni uno dei miei principali focus. E lo sono tuttora. Ormai da tempo sono state raccolte tutta una serie di prove che indicano come queste sostanze siano considerate un serio problema, soprattutto per la loro persistenza. Non a caso, vengono definiti inquinanti eterni (o eternal chemicals), in quanto una volta immessi nell’ambiente sono praticamente impossibili da degradare con i normali processi naturali. Questo, per chi si occupa di chimica ambientale, è già un gravissimo campanello d’allarme. Perché qualcosa che immesso in natura, può restarci per sempre, è in grado di generare una serie di effetti negativi, per buona parte ancora sconosciuti.
I PFAS sono eterni e invisibili come recita il titolo del tuo saggio. Cosa ha scoperto la scienza fino ad oggi sulla pericolosità di queste molecole?
Purtroppo la scienza è arrivata molto tardi quando si parla di PFAS. Come è emerso, infatti, molte prove e documenti sono stati occultati dalle aziende produttrici di queste molecole, che sapevano già molto di più di quanto la scienza ha poi scoperto in anni più recenti. Oggi sappiamo che molte di queste molecole sono interferenti endocrini: vuol dire che quando entrano nel nostro corpo, simulano il comportamento degli ormoni, dando falsi segnali al nostro organismo e alterando tutta una serie di funzioni vitali che sono mediate dagli ormoni, pensiamo alla crescita, al metabolismo, alla fertilità. Altre di queste molecole, oggi sappiamo essere dei noti cancerogeni. Il PFOA è stato dichiarato tale lo scorso novembre dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), che fa capo all’OMS. Il PFOS, invece, un potenziale cancerogeno. Attualmente conosciamo solo una parte degli effetti sulla salute di queste molecole. Ma temo che dovremo scoprirne molti altri ancora; per cui il quadro degli impatti sanitari potrebbe essere ben più grave rispetto a quello che sappiamo essere oggi.
Se le multinazionali produttrici di PFAS hanno occultato i rischi alla salute dovuti a queste molecole, nel tuo libro emerge come anche le istituzioni non siano state da meno, barricandosi dietro la mancanza di evidenti prove scientifiche della correlazione tra PFAS e alcune patologie. Come mai non si fa ancora abbastanza e proprio le istituzioni tradiscono i diritti fondamentali dei cittadini?
Le nostre istituzioni attuano quelle che definisco delle politiche attive dell’inazione: perché di fronte a un quadro in cui ci sono tutta una serie di prove ed evidenze numeriche che imporrebbero al legislatore di operare in difesa della salute pubblica, ci si allinea alla narrativa delle multinazionali, procrastinando tutti quegli interventi che non sarebbero più rinviabili. Purtroppo è un copione che si ripete. Molto spesso i tempi di intervento delle istituzioni preposte alla tutela della salute pubblica sono molto lunghi e arrivano quando gran parte dei danni sono già stati fatti. È esattamente quello che avvenuto con l’amianto, il tabacco e anche con i PFAS.
Le istituzioni, quindi, dovrebbero attuare più misure cautelative.
Esattamente. In Europa c’è un principio cardine che fa parte del nostro ordinamento ed è il principio di precauzione che imporrebbe al legislatore di intervenire a scopo cautelativo anche in un quadro di prove che non è esaustivo. Nel caso dei PFAS abbiamo tutta una serie di prove e di evidenze, ma finora gli interventi del legislatore sono stati piuttosto lacunosi, tardivi e inefficaci. Da un certo punto di vista, bisognerebbe interrogarsi su quanto la nostra politica sia in grado di tutelare la salute pubblica e gli interessi comuni. Se guardiamo al caso dei PFAS, la risposta è abbastanza eloquente.
A un certo punto parli di razzismo ambientale e di zone di sacrificio, che al di là di ogni aspettativa, quando si tratta dei PFAS, ricadono in aree in cui il tenore di vita è medio alto. Che cosa sono queste zone di sacrificio?
Sembrano essere un effetto collaterale necessario a mantenere in vita il nostro sistema capitalistico. Si sacrificano alcuni territori a delle produzioni che sappiamo essere impattanti, per produrre beni a buon mercato per tutta la collettività. Tutto ciò tradisce i principi democratici di uguaglianza e l’accesso agli stessi diritti. Insomma sono una macchia sulla coscienza collettiva. Per i PFAS accade qualcosa di molto insolito: la loro produzione è infatti in grande maggioranza confinata al nord del mondo, proprio perché si è arrivati molto tardi – e non ci siamo ancora a dire il vero – a politiche di restrizioni severe sull’uso di queste molecole. Non abbiamo ancora assistito a una massiccia delocalizzazione della loro produzione in paesi del sud del mondo. Di conseguenza, si creano, come in Veneto, delle zone di sacrificio ad alti standard di vita. E si finisce per vivere in un bunker ovattato, dove manca l’accesso ai bisogni essenziali: acqua pulita, cibo sicuro e non contaminato.
C’è rimedio?
Le comunità che vivono in delle zone di sacrifico devono in qualche modo prendere consapevolezza di essere letteralmente sacrificate al profitto di pochi. In Veneto, ad esempio, assistiamo a un massiccio inquinamento che comunque colpirà non solo le presenti, ma anche le future generazioni. È proprio dalle comunità locali che deve partire la spinta per provare a cambiare le regole. Quasi sempre la nostra società si nutre dell’appagamento di bisogni effimeri: uno smartphone all’ultimo grido, un’auto confortevole, un grande appartamento, un televisore molto performante. Ma se manca l’accesso all’acqua e al cibo non contaminati, a quel punto, come viene ridefinita la nostra scala di valori?
Tornando ancora una volta al libro, com’è stato l’incontro con Robert Billot, autore della prefazione e avvocato simbolo della lotta ai PFAS?
Ci siamo incontrati più volte in questi anni. È stato ospite di numerose iniziative e ha visitato alcune delle aree contaminate del Veneto. Di certo si ha l’impressione – e poi la certezza, una volta che lo si conosce meglio – di avere a che fare con una persona speciale. Una persona che in qualche modo ha cambiato il suo operato, riparametrando la propria scala di valori e passando dalla difesa delle aziende chimiche inquinanti, alla strenua difesa della collettività e delle persone.
Quello in cui accompagni il lettore è un drammatico bagno di realtà. Un risveglio delle coscienze. Ma è anche intriso di speranza e coraggio. Che ruolo ha la società civile?
Di fronte a problemi di così vasta portata, ci si potrebbe sentire inermi. Ma in realtà in questi anni ho conosciuto – e continuo a farlo – tante persone che provengono dai territori inquinati (dal Veneto, al Piemonte, alla Lombardia), che decidono di non arrendersi, di cambiare la propria vita e destinarla a delle battaglie importanti, di fare di tutto per cambiare lo stato delle cose. Non solo per il presente, ma anche per il futuro di chi verrà dopo. Questa è l’esperienza più forte che ancora oggi mi porto dietro. D’altra parte, la storia dei PFAS in tutto il mondo, ci insegna che poche persone sono riuscite a mettere sotto scacco le grandi multinazionali. E la vicenda che vede protagonisti Tennant e Billot (rispettivamente l’allevatore del West Virginia e il suo avvocato, protagonisti della prima causa per crimini ambientali alla DuPont, azienda leader nel settore della chimica, ndr) ne è la concreta dimostrazione. È un’iniezione di fiducia, perché anche di fronte a difficoltà così grandi, situazioni così complesse da affrontare, come singoli individui è comunque necessario continuare a fare la propria parte.
Da quando ti occupi di questo tema, ricordi un episodio simbolo della lotta ai PFAS?
È difficile citarne solo uno, perché farei un torto a tutte le persone che ho conosciuto in questi anni. Mi piace sempre raccontare quella che considero una storia figlia del riscatto, con protagonista la Rete Gas Vicentina. Quando è scoppiata l’emergenza PFAS in Veneto, questo GAS cominciò a tradire uno dei principi cardine su cui si fonda un gruppo di acquisto solidale: ovvero quello di acquistare solo prodotti a chilometro zero. Allora non avevano contezza di quale fosse la reale situazione dell’inquinamento sul territorio. Dopo un po’ si resero conto che questo approccio non poteva andare bene, così crearono un mercato contadino a chilometro zero, senza PFAS, premiando tutti quegli agricoltori che autonomamente si erano attrezzati per irrigare i campi con acqua non inquinata e facendo periodiche analisi sugli ortaggi e sulla frutta messi in commercio. Ne è scaturito un riscatto territoriale guidato dai custodi della terra e senza il supporto del legislatore. Anche perché, ancora oggi, nonostante il Veneto sia una delle zone più inquinate d’Europa, non si ha ancora certezza sulla presenza dei PFAS nei prodotti che vengono coltivati o negli animali allevati.
Nel saggio citi spesso uno dei libri di riferimento dell’ambientalismo, Primavera silenziosa della biologa americana Rachel Carson. Cosa si dovrebbe fare perché non torni una primavera silenziosa a causa di questi inquinanti eterni?
Bisognerebbe sicuramente cambiare l’approccio alla chimica. La chimica è fondamentale per la nostra esistenza per come la conosciamo oggi. Purtroppo arriviamo sempre molto tardi a scoprire la pericolosità di alcune sostanze: per il legislatore è impossibile riuscire a star dietro all’incredibile quantità di molecole che l’industria sintetizza ogni giorno. Per cui si dovrebbero cambiare le regole, fare in modo che di qualsiasi sostanza, prima di essere messa in commercio, ne venga verificata la pericolosità, attraverso dei calcolatori e dei test in silicio. Proprio per prevenire il rischio che si immetti in commercio qualcosa che causerà gravi danni in futuro. Anche perché, è probabile che i nuovi PFAS siano già in circolo: semplicemente non li conosciamo ancora.
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