Minimalismo digitale e tecnologia: come liberarsi dalla dipendenza da smartphone?
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Una delle (varie) cose antipatiche dell’età adulta è che smetti di ricevere regali per il tuo compleanno. È un meccanismo tipico: quando il gioco si fa duro, la maggior parte delle persone si ritira. Si giustificano con loro stesse ricorrendo alla frase “ha un lavoro e guadagna dei soldi, può comperarsi quello che vuole”. Nemmeno Babbo Natale si cimenta più.
Eppure, per quanto mi riguarda, è proprio dall’inizio dell’età adulta che accumulo lunghe liste di desiderata, che tengo in formato digitale e cartaceo per essere sempre pronta. Ma alla fine i regali me li faccio sempre da sola. Persino la mia lista di nozze sta prendendo polvere e questo potrebbe darvi l’idea della frustrazione che vivo.
Sapendo come andrà, quest’anno il regalo me lo sono comperata persino in anticipo: un orologio analogico. In epoca di smartwatch dalle prestazioni incredibili, mi sento molto retrò e un po’ rivoluzionaria. La spinta decisiva nella scelta di questo auto-regalo è stato un libro dal titolo Minimalismo digitale di Cal Newport.
Sono ormai al terzo libro dell’autore di “Minimalismo digitale”, che inizialmente mi ha conquistata con il suo saggio più famoso – Deep work – in cui spiega l’importanza di sapersi concentrare sul lavoro e non solo per andare davvero in profondità nelle cose. Capacità sempre più rara e quindi sempre più ambita, una di quelle che possono fare la differenza per la qualità dei risultati e per la carriera. Newport stesso ha un curriculum di tutto rispetto che lo ha portato a essere professore di computer science all’università di Georgetown, dopo un Phd al mitologico MIT, e prolifico autore di diversi libri e articoli su importanti testate giornalistiche e riviste scientifiche.
Credo sia intuibile da tutti che la capacità di concentrazione è inversamente proporzionale alla quantità di distrazioni a cui siamo sottoposti. E indovinate: quali sono le distrazioni più frequenti? Già, proprio quelle: le notifiche dei messaggi whatsapp, le mille finestre aperte sul nostro browser, le telefonate, l’occhiatina ai social. Tutto ciò frammenta la nostra attenzione e fa sì che il nostro cervello ricerchi continuamente quel rinforzo positivo intermittente e quel desiderio di approvazione sociale.
Newport riporta studi e dati e non è l’unico a farlo: se ne possono trovare ormai a centinaia di ricerche scientifiche sull’argomento. Si arriva a parlare di dipendenza fisica e comportamentale, esattamente come quella data dalle droghe, con tutte le conseguenze in caso di astinenza. Non voglio spaventare nessuno, ma penso sia importante parlarne il più possibile – vi rimando anche a un mio articolo su un tema simile, trasposto nell’ambito dell’educazione digitale a bambini e ragazzi.
Ma arriviamo al punto: cos’è il Minimalismo digitale? “Una filosofia d’uso della tecnologia secondo cui l’utente dedica il proprio tempo online a un ridotto numero di attività accuratamente scelte e ottimizzate per sostenere obiettivi e valori importanti, trascurando felicemente tutto il resto”. Penso che quel “felicemente” faccia la differenza.
I principi di base elencati da Newport sono tre:
- la confusione costa cara. Affollare il proprio tempo e la propria attenzione con troppi dispositivi, app e servizi genera un costo complessivo negativo che vanifica i piccoli vantaggi;
- ottimizzare è importante. È bene riflettere con attenzione sulla modalità di utilizzo della tecnologia;
- scegliere è appagante. Una scelta consapevole paga più della comodità.
Nel libro Newport invita a fare un esperimento di minimalismo digitale per 30 giorni e indica come farlo dando poche semplici regole da applicare alla propria quotidianità e alle proprie esigenze. Io lo sto provando, pur non avendo nessun interesse a fare l’integralista. Quello che ricerco è un benessere mentale che troppo spesso mi sembra offuscato da un sovraccarico di informazioni, da velocità di pubblicazione di contenuti che mi affatica e da una certa mancanza di solitudine. Mi son resa conto che sentirmi sempre costantemente iperconnessa mi toglie quello spazio di solitudine con i miei pensieri che è invece vitale per me.
Saper aspettare: lo sappiamo fare ancora? Che sia una risposta, una telefonata, un’informazione. Siamo ancora in grado di uscire di casa senza cellulare senza sentirci mancanti di qualcosa, senza avvertire un rivolo di ansia che scorre sottopelle? Io – lo ammetto – non ne sono ancora capace. Penso a quando i miei genitori lasciavano la me adolescente andare in giro con gli amici negli anni ‘90. Un esercizio di fiducia e di minimalismo digitale all’epoca obbligato. Spero di esserne capace quando arriverà il mio momento.
Perché la cosa che più mi preme in tutto questo non è negare l’utilità della tecnologia, ma la nostra autonomia, di azione e di pensiero. Perdere il controllo delle cose e di noi stessi è sano e meraviglioso, ogni tanto. Non immersi in un infinito scroll sui social, ma per quella bellissima serata con un amico persi a chiacchierare o per una passeggiata da soli la sera dopo il lavoro, quando il tempo scorre e ti accorgi che non hai mai guardato il cellulare. Nemmeno per sapere l’ora, perché hai un bellissimo orologio nuovo al polso con le lancette che fanno tic-tac.
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