Professione Chief Happiness Officer: “Il mio lavoro? La manager della felicità”
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Torino - Se anche voi storcete il naso di fronte all’abuso di inglesismi, vi capisco: lo faccio anch’io. Eppure noi puristi dobbiamo metterci l’anima in pace: termini come Chief Executive Officer, Chief Financial Officer e Chief Technology Officer hanno ormai dilagato negli organigrammi aziendali, soppiantando progressivamente le vecchie figure come l’amministratore delegato, il direttore finanziario o il responsabile della tecnologia.
Ma, sbirciando con attenzione tra i quadri dirigenti di qualche organizzazione particolarmente all’avanguardia, potrebbe addirittura capitarvi di scorgere un ruolo ancora più misterioso degli altri: il Chief Happiness Officer – di cui abbiamo già parlato qualche tempo fa qui. Visto che ci piace l’italiano non temete, abbiamo pure la traduzione: manager della felicità. E qui il naso storto si trasforma in una smorfia sbalordita: ma come, ci sono imprenditori disposti a pagare qualcuno perché si occupi del benessere all’interno delle proprie società?
La risposta è sì. Esistono professionisti che si dedicano a questa attività, agenzie che li formano e li mettono a disposizione delle imprese, perfino una certificazione che li attesta. I numeri, soprattutto nel nostro Paese, sono ancora limitati, ma in costante aumento: gli ultimi dati parlano di oltre 350 Chief Happiness Officer certificati in Italia negli ultimi cinque anni. Un fenomeno che sta muovendo i primi passi dunque, ma dall’impatto reale e significativo sull’esperienza di molti lavoratori. E che forse merita un piccolo approfondimento.
Alla mia richiesta d’informazioni, che ho avanzato con curiosità a una delle agenzie specializzate – la 2BHappy Culture Company –, ha risposto Paola Baravalle, che oltre a ricoprire lei stessa questo incarico si cura anche di comunicarlo al grande pubblico che ancora non lo conosce. La prima domanda è la più scontata: che cosa fa tutto il giorno un Chief Happiness Officer?
«Spesso si crede che organizzi lezioni di yoga, che dispensi sorrisi, insomma che sia una specie di giullare di corte o di animatore del villaggio vacanze; invece il nostro è un lavoro ben più profondo», mette subito in chiaro Baravalle. «Ci occupiamo sì della felicità, ma non intesa come emozione fugace, bensì come competenza da allenare e attitudine quotidiana che trasforma le esistenze, i comportamenti e le scelte».
Questo è il primo punto fermo da fissare, per non fare confusione quando si tratta questo tema. Un conto è l’allegria, la contentezza, la gioia che arrivano e se ne vanno con la stessa rapidità; un altro, ben diverso, è il senso che si attribuisce al proprio impegno lavorativo, la costruzione di un proposito di valore che ci permetta di crescere e di apprendere, di realizzare il nostro potenziale, di dare un contributo agli altri, di raggiungere uno scopo più alto. Per dare corpo a questa seconda e più profonda concezione di felicità quindi non ci si può occupare solo dei singoli individui, bensì dell’intera organizzazione nel suo complesso.
«Il Chief Happiness Officer è un leader positivo, perché mette mano ai processi aziendali: selezione, performance, premi, gestione delle riunioni – prosegue la nostra guida –. In sostanza, applica i princìpi che derivano dalla ricerca scientifica sulla felicità attraverso pratiche e strumenti, trasformando profondamente l’ecosistema aziendale. Tenendo presente che le persone non sono ingranaggi da manipolare o controllare: perciò, affinché questo lavoro sia sostenibile nel tempo, occorre muovere piccoli passi, in maniera graduale e progressiva, adattando di volta in volta il piano d’azione allo specifico momento culturale dell’organizzazione».
Qualche esempio emblematico su tutti, che tra l’altro non riguarda colossi multinazionali bensì piccole realtà aziendali: «Il primo è Giorgia Cordella, che lavora per un hotel nel Triveneto: ha rimesso mano ai processi di base, come le riunioni operative, l’accoglienza e il coinvolgimento del personale di camera, sala e cucina nella definizione dei turni di lavoro. Un altro esempio è Eleonora D’Alessandri, della società CDA di Cattelan, che gestisce distributori automatici: la maggior parte dei loro operatori si occupa del trasporto o della distribuzione delle macchine, dunque spesso è distante dall’ufficio, non si sente neppure parte dell’azienda».
«Per ovviare a questo problema – racconta Paola – Eleonora ha organizzato momenti di convivialità, come le serate pizza, approfittando del fatto che alcuni lavoratori se la cavano molto bene in cucina. E poi cito Francesca Zecca e Alessandro Paone, imprenditori di Progetto ED, che dopo la certificazione stanno ridefinendo la cultura e i processi della loro organizzazione, seguendo i pilastri della scienza della felicità».
A uno sguardo superficiale potrebbero sembrare attività folkloristiche o semplici concessioni frutto del buon cuore degli imprenditori. Nulla di più sbagliato: la realtà è che se l’ambiente di lavoro è sereno e poco stressante, se i dipendenti si sentono fiduciosi e stimati, se condividono autenticamente i valori, se lavorano perché tengono al progetto e non solo per portare a casa lo
stipendio a fine mese, allora è tutta l’impresa a funzionare meglio.
E questa non è soltanto una considerazione banale e intuitiva, bensì un effetto concretamente riscontrabile sui risultati dell’organizzazione, anche quelli economici. «Ogni anno l’istituto di ricerca statunitense Gallup realizza un rapporto, lo State of Global Workplace, per misurare come si sentono le persone al lavoro – racconta Baravalle –. I dati del 2023 sono abbastanza inquietanti: solo il 23% dei lavoratori si dichiara coinvolto in quello che fa, in Italia appena il 5%.
Un lavoratore non coinvolto magari fa il suo, ma non lo fa al meglio, non esprime la propria creatività, non coglie i problemi, non cattura le opportunità, non sfrutta il potenziale innovativo. Se i lavoratori non sono coinvolti scende la produttività e salgono assenteismo, turnover, livelli di malattia e di burnout. Oltretutto, ciò può essere anche pericoloso, se consideriamo che tra questi lavoratori ci sono anche gli insegnanti dei nostri figli e gli operatori
sanitari che ci curano».
Insomma, avere un Chief Happiness Officer in azienda non è solo giusto, è anche conveniente: «La felicità è una strategia organizzativa intelligente, perché oltre al benessere degli individui favorisce pure il profitto». Ne beneficia l’impresa, ne beneficiano gli azionisti, ne beneficiano i dipendenti e ne beneficia il Chief Happiness Officer stesso. Già, perché dedicarsi a rendere più felici gli altri è in grado di rendere più felice anche chi lo fa: «Questo ruolo è un arricchimento della professione del manager, la scelta di dare un senso più pieno al proprio impatto nel mondo».
È stata proprio questa ricerca di senso a spingere Paola verso una strada così innovativa: «Alle spalle ho venticinque anni di carriera, ero arrivata a essere responsabile comunicazione di un’importante multinazionale. A un certo punto però mi sono accorta che lavorare per lavorare non mi bastava più. Avevo un’attitudine naturale alla leadership positiva: volevo essere un capo diverso da tanti che avevo avuto. E avevo sperimentato in prima persona che, dando vicinanza e attenzione ai collaboratori, loro restituiscono molto. Le persone hanno voglia di fare il proprio lavoro al meglio, il punto è creare le condizioni che glielo consentano».
Acquisendo i concetti chiave della scienza della felicità e delle neuroscienze, quest’attitudine naturale si è trasformata in un vero e proprio nuovo lavoro. «Oggi, come Chief Happiness Officer, mi sento una professionista più completa, più risolta, con più prospettive, in grado di valorizzare gli altri e non di deprimerli – conclude –. Per un periodo avevo anche accarezzato l’idea di lavorare nella beneficenza, nel sociale, nel mondo delle Onlus. Poi però mi sono accorta che c’è tanto bisogno di fare del bene anche nei contesti che viviamo tutti i giorni, in famiglia, nella comunità che frequentiamo e dove lavoriamo. Scegliendo e allenando tutti i giorni la felicità nostra e degli altri, un passo alla volta».
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