Scuola di fallimento: chi vorrebbe andare a lezione per imparare a fallire?
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Modena, Emilia-Romagna - Cosa ti succederebbe se perdessi tutto? È una domanda delicata, in certi casi persino terrorizzante, perché fa leva sulla paura più atavica di qualunque essere umano. E per questo è una domanda che di solito semplicemente evitiamo di porci. È stato così anche per Francesca Corrado, originaria di Crotone, donna dai tanti passati: uno da pallavolista agonistica in Serie C; uno da studente di Economia politica – «rimasi folgorata leggendo Marx», sorride –, ricercatrice e docente all’Università di Modena; uno da imprenditrice, vicepresidente di una start up innovativa che vinse anche diversi premi.
A leggerlo nero su bianco, in queste poche righe, il suo sembra un tragitto immacolato, invidiabile, e in effetti per molti anni lo è stato. Almeno fino al 2015, quando la sua vita è bruscamente cambiata nell’arco di due mesi. «La start up iniziò a scricchiolare per via dei disaccordi con i soci sulla strategia di sviluppo – racconta Francesca a Italia Che Cambia – e siccome i miei soci erano anche i miei docenti, la cattedra all’università mi venne ritirata».
La situazione finì addirittura in mano agli avvocati e si protrasse per un anno e mezzo: «Come se non bastasse, il mio fidanzato mi lasciò e siccome vivevo a casa sua mi ritrovai pure senza un posto dove stare. Trovai ospitalità da alcuni amici, ma a loro mi limitai a confessare la crisi della coppia, senza parlare di quella personale e più grave che stavo attraversando. Avevo paura che mi giudicassero, che mettessero in dubbio la stima che mi ero guadagnata con i miei successi precedenti».
Possiamo solo immaginare quanto sia stato difficile per Francesca attraversare questa tempesta perfetta, elaborarla a livello sentimentale. «Le colpe dei miei fallimenti la attribuivo alle persone che mi stavano intorno. Ed ero talmente infuriata con loro che la mia rabbia si trasformò in odio, e l’odio in un malessere fisico, che mi portò a essere ricoverata in ospedale. A quel punto caddi nell’estremo opposto: iniziai a pensare che ero io la stupida, la deficiente, l’incapace… Ma anche questo punto di vista non mi faceva stare bene».
Come spesso capita nella vita, la via d’uscita passò da una strada alternativa inattesa: «Decisi di tornare in Calabria, per stare a fianco di mio padre, gravemente malato di Alzheimer». Aiutando lui, trovò il modo migliore per aiutare anche se stessa: «Mi resi conto che stavo guardando il mondo dalla prospettiva sbagliata. Presi una penna e due fogli. Sul primo scrissi i ringraziamenti a tutti coloro a cui avevo attribuito le responsabilità dei miei fallimenti, poi lo cestinai. Sul secondo un elenco dei miei errori, per capire quali processi cognitivi mi portavano a commetterli regolarmente e dunque per evitare di ripeterli ancora».
Se vi sto raccontando la storia di Francesca Corrado è perché il suo accidentato cammino di crescita personale si è trasformato in una vera e propria scuola, attingendo alle ricerche scientifiche nell’ambito delle neuroscienze, della psicologia, dello sport ma anche del gioco e del teatro. Per arrivare alla nascita di questo progetto però dobbiamo mandare avanti il nastro fino al 2017, un altro discreto annus horribilis, «il secondo peggior momento della mia vita», ricorda.
«Passavo le mattinate e i pomeriggi in ospedale con mia madre, che aveva avuto un ictus. Di notte tornavo a casa da mio padre, che però per via dell’Alzheimer pensava fosse giorno e quindi mi teneva sveglia. Erano le condizioni peggiori, sia economiche che psicofisiche, per far nascere un progetto ambizioso come quello della scuola. Ma se c’è una cosa che avevo capito è che il contesto perfetto per fare le cose non esiste. Ossia, ogni momento è quello giusto, se vuoi cambiare davvero».
Così in due periodi di profonda crisi ha visto la luce quella che oggi è la prima Scuola di fallimento in Italia, che ha sede a Modena e collabora con aziende, scuole, università e giovani. Un’impresa ambiziosa a partire dal nome, che ha suscitato e suscita non poche perplessità. Del resto, chi vorrebbe andare a lezione per imparare a fallire? «C’era chi mi consigliava di cambiarlo con uno meno impattante, chi di fallimento non voleva nemmeno sentir parlare. Una reazione che riscontravo prima di tutto su me stessa: da ragazza ero una perfezionista e il verbo “fallire” non faceva parte del mio vocabolario. Ma se abbiamo un problema finanche ad accettare la parola, allora proprio su quello dobbiamo lavorare».
A partire dall’infanzia: «Mia nipote, di cinque anni, è cresciuta in una famiglia che incoraggia i suoi errori. Eppure anche lei un giorno mi ha detto che non sarebbe mai venuta alla Scuola di fallimento, perché lei va solo a scuola di vittoria. Dal contesto in cui vive assorbe messaggi che la influenzano inconsapevolmente. Addirittura un giorno voleva smettere di andare all’asilo perché la maestra la sgridava perché colorava fuori dai bordi del disegno. Ormai pretendiamo la perfezione perfino dai bambini».
Il primo passo allora è un’autentica rivoluzione culturale. È un intero concetto che va sdoganato, trasformandolo da battuta d’arresto in punto di ripartenza, da marchio indelebile e invalidante a opportunità di crescita e apprendimento. Fallire ovviamente non piace a nessuno, eppure succede a tutti, perché fa parte del gioco. Allora forse, invece di concentrare tutte le nostre energie a scacciare i fallimenti, dovremmo impegnarci a dare loro un senso, a trasformarli in esperienze generative, a «osare perdere per vincere», come recita non a caso il motto della Scuola di fallimento.
«Non è vero che sbagliando s’impara, altrimenti saremmo tutti scienziati», mette le mani avanti la fondatrice della Scuola di fallimento. «Prima bisogna accettare e analizzare il nostro errore. Io personalmente nei miei momenti di crisi ho imparato ad accettare due cose. Primo, che la situazione è quella che è e dobbiamo prenderla per buona, prima di etichettarla. Secondo, che provo dolore: gli psicologi ci insegnano che fallire significa vivere un lutto, perdere non solo oggetti e relazioni ma una parte di sé. Accettare significa avere pazienza, confidare che quell’evento negativo potrà rivelarsi formativo in futuro, anche se in questo momento non lo capiamo».
Spesso solamente a posteriori riusciamo a unire tutti i puntini della nostra esistenza in un unico disegno coerente. Invece la nostra cultura ci spinge a pretendere tutto subito, senza sforzo, e a misurare le persone in base ai risultati che hanno ottenuto. Molto raramente diamo importanza alla strategia a lungo termine, al percorso a ostacoli che le ha portate a raggiungerli: un percorso fatto anche di tanti inciampi intermedi.
E anche di quei momenti in cui ci sembra di non avercela fatta, quando in realtà non ce l’abbiamo ancora fatta. «Per me – chiosa la fondatrice della Scuola di fallimento – il successo non c’entra con i risultati materiali, quanto con la capacità di raggiungere ciò che ha davvero valore per noi. Non significa assenza di sconfitte, ma capacità di accettarle e trasformarle in lezioni per far meglio la volta successiva».
Eccolo allora il vero significato profondo che può donarci il fallimento. Che dietro l’angolo c’è sempre una nuova consapevolezza, una nuova opportunità, un nuovo inizio, una nuova conquista. Che non raggiungere gli obiettivi che ci eravamo prefissi può aiutarci a capire cosa conta di più: al di là dei soldi, dei riconoscimenti, del prestigio, del potere, della carriera, degli specchietti per le allodole che siamo abituati a rincorrere. Che, dopo aver perso tutto, esiste anche la possibilità di riscoprirci ancora più ricchi di prima.
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