Di giovani e qualità della vita nel Sud Sardegna: “Questa terra non la voglio abbandonare”
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Sud Sardegna - Non è un’Isola per giovani. O meglio, non lo è per le persone tra i 18 e i 35 anni che abitano nel Sud Sardegna, provincia che secondo le classifiche sul benessere presentate dal Sole 24 ore è ultima nel panorama italiano per qualità della vita. I dati lo circoscrivono ma il fenomeno ha pesato – e risuonato – come un verdetto su tutta l’Isola: tra riflessioni affidate ai social e considerazioni rilasciate sui giornali, essere il fanalino di coda per quanto riguarda la qualità della vita di persone nel pieno del passaggio all’età adulta, non piace; soprattutto a chi quei luoghi quasi tacciati di invivibilità, li chiama casa.
Guardare ai dati come numeri e non come una fotografia codificata delle comunità, ne limita però il potenziale generativo. Le finalità dei report non possono essere solo le classifiche e se nella società della performance la codifica dei bisogni sociali si trasforma in gara, allora forse è nella decodificazione che bisogna fare affidamento. Nel mutare quindi nuovamente le graduatorie in persone, e i numeri in parole. Cosa significa nascere, crescere e abitare nel luogo dove la qualità della vita è la peggiore di tutto il territorio italiano?
QUALITÀ DELLA VITA? QUA MANCANO LE POSSIBILITÀ
«Sono nata nella provincia che sapevo essere tra le più povere d’Italia adesso è diventata anche quella con la qualità della vita peggiore per i giovani. Non sono aspetti che ho notato subito: ho avuto accesso a diverse opportunità, da quelle artistiche a quelle sportive, ma da quando mi sono spostata a Cagliari per l’università ho notato quanto la mia esperienza di crescita fosse differente». Chiara Mallus è una studentessa di 21 anni. La sua è una testimonianza che guarda agli indicatori alla base dell’indagine sulla qualità della vita: misurano i servizi, le opportunità e le condizioni di vita, dai tassi di disoccupazione al numero di residenti, dalle aree sportive agli amministratori under 40.
«Dal punto di vista lavorativo la maggioranza delle proposte arriva dal settore turistico e negli anni ho avuto modo di vedere situazioni drammatiche: persone sottopagate per mansioni e orari assurdi, cinque euro l’ora per lavorare dalle sette di sera alle quattro del mattino; si parla di giovani che non vogliono lavorare ma non si guarda alle proposte avanzate. In ottica futura è triste pensare di non avere alcuna possibilità se non un lavoro sottopagato: c’è un’assenza di prospettive direttamente riconducibili al territorio, e se non ho possibilità e alternative, come si può pretendere prima che io riesca a fare esperienze lavorative – penso a chi cerca lavoratrici “con esperienza” – e poi che io continui a vivere qua?».
Alla questione sull’offerta lavorativa si sommano ulteriori problematiche, come quelle relative alla mobilità. «Ricordo un paio di anni fa volevo cercare un lavoro per l’estate e mi era stato proposto di lavorare in una colonia estiva, ma non avevo la patente e era impossibile per me poterci arrivare coi mezzi pubblici in determinate fasce orarie e ho dovuto rinunciare. Oltre alla mancanza di prospettive mancano anche i servizi: a oggi impiego due ore per tornare a casa coi mezzi, per fare 90 chilometri di distanza. Percepire di essere isolati aumenta la desolazione e fa sentire come se non avesse senso tornare a casa, come fosse evitabile».
DIRITTO ALL’ABITARE
Nei luoghi dove la qualità della vita è ai minimi termini, scegliere di abitare diventa complesso. Secondo l’indice “residenti giovani”, il Sud Sardegna è al posto 102 su 107. Per Chiara Mallus il tema della residenza «è forse tra quelli che mi tocca di più: il mio percorso universitario è in conclusione e questo significa dover prendere delle scelte, io studio per diventare insegnante e interprete LIS, ma che senso ha tornare se non posso applicare ciò per cui mi sono formata? Non ci sono alternative oltre al turismo e i servizi che ci sono sono funzionali al turista, sembra quasi che non si voglia creare opportunità soprattutto per noi giovani. E se mancano prospettive, allontanarsi è normale».
«Sicuramente vorrei costruirmi un futuro dove sono nata anche perché sono sempre stata convinta del fatto che se non parto dalle mie radici difficilmente potrò crearmi un mio posto nel mondo. Come? Beh parlare di una rivoluzione culturale è utopico, ma piano piano vorrei potermi costruire il mio spazio sia individuale che comunitario. In ottica di realizzazione mia personale posso immaginare di costruirmi un futuro, ma non accetto e non accetterò mai di poter lavorare solo nel settore turistico. Lavorare d’estate, arricchirsi e poi vivere di rendita: questa è un’economia di sussistenza e non mi sentirei arricchita».
PERCEPIRE LA DIFFERENZA
«Dove non ci sono input è facile annoiarsi e il disagio sociale pesa sulla salute mentale delle persone». Per E., sulcitano di 25 anni che ha scelto di restare anonimo, il focus sull’umanizzazione dei dati si poggia anche sugli effetti di una bassa qualità della vita nella salute mentale delle persone. «Non avere una buona qualità della vita significa in qualche modo perdere dei pezzi di sé, il tutto in un contesto dove anche l’accesso al diritto alla salute è precario. La vita si fa complessa quando le oppressioni si sommano, ma siamo talmente abituati a vivere in queste circostanze che finché non esci, percepire la differenza è difficile».
Anche per E. il legame col territorio resta – «di abbandonare non me lo sento perché è una terra già abbandonata, alle basi militari, alle fabbriche, ai padroni, confessa» –, ma altrettanto importante davanti ai dati è anche domandarsi le motivazioni che hanno determinato le attuali classifiche. «Le fabbriche e l’industrializzazione hanno lentamente eroso la cultura e le economie locali, lo stato italiano ha sottratto territori e economie minando l’autodeterminazione dei territori e dividendo le comunità. Manca la possibilità di autodeterminarsi ed è una cosa che succede ancora, la vediamo anche con l’esproprio delle terre per la colonizzazione energetica. Cosa rimane alle persone per scegliere?».
SOLUZIONI COMUNITARIE
«È una zona in cui è difficile farsi una passeggiata senza imbattersi in reti e zone militari invalicabili, come ci può essere benessere? Noi da un momento all’altro non possiamo più andare nelle nostre spiagge perché interdette per le esercitazioni, e forse questo è l’ultimo dei problemi; dalle case si sentono benissimo gli aerei durante le esercitazioni, eppure noi questi posti li abitiamo e vogliamo farlo. Sono nato in un territorio dove è stato svenduto tutto, è ovvio che questo influisce sulla qualità della vita delle nuove generazioni».
«Davanti alla volontà di restare trovare soluzioni possibili diventa una necessità. Quali? Secondo E. «l’unione e la condivisione, il rifiuto della colonizzazione e la riappropriazione dell’autodeterminazione culturale ed economica delle comunità. Sarebbe importante ritornare alla terra, può essere rivoluzionario, a partire dal prendersene cura senza sfruttarla, dal viverla collettivamente. Inizierebbe così a rafforzare l’economia interna, ma non in termini di ricchezza: di vita possibile, senza affanni o privazioni».
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