Dalla Sardegna alla Palestina, da Nanneddu meu a “Gaza”, la nuova canzone dei Train to Roots
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Sassari - Per i Train to Roots cantare è partecipazione. Nati a Sassari nel 2004, oggi sono tra le band più importanti nella scena reggae sarda e italiana, vincitori nel 2006 del premio come miglior gruppo italiano al European Reggae Contest organizzato dal Rototom Sunsplash. Negli anni i Train to Roots hanno deciso di schierarsi e di farlo attraverso il loro strumento: la musica. Il loro ultimo pezzo, Gaza, nasce dalla necessità di prendere parte e dunque di partecipare a una Resistenza, quella della Palestina.
Il gruppo già in passato si è schierato in favore della libertà al dissenso: a due settimane dalla storica sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per tortura per la notte del 21 giugno 2001, notte in cui è avvenuto il blitz della polizia nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova, il gruppo presenta Policegun, una canzone che è un invito a rimanere umani, anche se con addosso una divisa. L’invito di Gaza è quello di prendere parte, di dare il proprio contributo con ciò che si ha a disposizione, in un momento storico in cui manifestare, dissentire sembrano delle anomalie da tenere a bada, attraverso un silenzio assordante.
L’ultima canzone dei Train to Roots si intitola Gaza, c’è stata un’urgenza di scrivere questo brano, e, se sì, perché questa urgenza?
Abbiamo sentito l’urgenza di scrivere la canzone per la necessità di parteggiare, dal senso del dovere di scegliere da che parte stare, andando sicuramente contro a quelle che sono le logiche dell’informazione mainstream e che, secondo noi, vorrebbe tutto in silenzio e possibilmente convinti che sia anche una causa giusta annientare un popolo sotto forma di una presunta “guerra al terrorismo”. Abbiamo deciso di studiare la tradizione musicale sarda perché dopo vent’anni di attività abbiamo scelto di continuare a produrre musica, musica che piace a noi, quindi indipendentemente dalle mode del momento. Poi c’è capitata Nanneddu meu di Peppino Mereu.
Cosa vi ha condotto a ritenere questa canzone della tradizione sarda, Nanneddu meu di Peppino Mereu per l’appunto, adatta a un’attualizzazione per parlare della questione palestinese?
Nanneddu meu viene scritta in un periodo di guerra e alcune frasi della poesia ci sono sembrate perfettamente riferibili in chiave attuale alla Palestina; abbiamo scelto delle parti, altre le abbiamo modificate. Abbiamo impiegato un po’ di tempo per capire che titolo dare, mi sono allora immaginato di avere un amico palestinese. Ho scelto un nome tipico del mondo arabo, Mohamed; con tono affettuoso confidenziale è diventato Mohameddu meu.
Eravamo pronti a ricevere delle critiche con Gaza, perché quando si va a mettere mano su pietre miliari della tradizione c’è sempre il rischio di attirare del disappunto, ma la nostra volontà di lanciare un messaggio di pace ci ha spinti a rischiare e ci abbiamo creduto tanto. Abbiamo inserito la traduzione nel video musicale di Gaza in modo che potesse arrivare a quante più persone possibili.
Il presagio delle critiche si è poi avverato? Com’è stato accolto il brano?
Abbiamo avuto tantissime condivisioni e soprattutto centinaia di messaggi di ringraziamento. Non abbiamo ricevuto nessuna critica, anzi: molti si sono sentiti riconosciuti e rappresentati da una canzone del genere quindi è stato proprio una botta d’orgoglio, frutto di un lavoro che facciamo con grande passione.
La scelta di scrivere una canzone schierata per di più in lingua sarda è un’ulteriore presa di posizione?
Dopo la pandemia ci siamo trovati a un bivio: continuare a suonare o mollare tutto. Ma dopo vent’anni di collaborazione siamo diventati una seconda famiglia per cui abbiamo deciso di continuare e farlo con quello che ci piace e ci viene meglio. Siamo sardi, ci sentiamo sardi e questo nostro senso di appartenenza ci ha portato anche lontanissimo: scrivere e cantare in sardo ci ha regalato quell’originalità che ci ha permesso di fare tanti tour rappresentando inoltre la nostra terra, la nostra lingua. Pensiamo di essere nati per questo: per cantare della nostra terra con la nostra lingua.
La canzone di Peppino Mereu recita “su mundu est gai”, il mondo è così. Com’è il mondo oggi?
In silenzio. Sembra che nessuno si accorga di nulla, che nessuno voglia fare nulla. Noi come artisti sentiamo il dovere civile di scrivere testi che abbiano dei contenuti, però ai nostri occhi sembra che ci vogliano tutti in silenzio. L’informazione mainstream spesso non da informazioni veritiere, viene perennemente giustificato l’atteggiamento sionista in nome di una lotta contro il terrorismo, trascurando tutta la parte storica che c’è dietro, e di conseguenza tralasciando la parte di responsabilità che ha l’Europa e la società occidentale tutta.
Nello scrivere la canzone avete trovato punti di contatto tra il popolo sardo e quello palestinese?
Anche se non abbiamo passato le pene del popolo palestinese e sebbene non sia stata una sottomissione immediata, sicuramente ci sono dei punti di contatto. Ci hanno rubato tantissima terra, hanno approfittato del fatto che eravamo un popolo poco numeroso, sottoponendoci a una serie di misure spacciandole come interesse nazionale, ma di una nazione che col popolo sardo aveva pochi punti in comune, basti pensare alle basi militari o all’assalto eolico. Hanno inquinato, hanno installato fabbriche della morte: lentamente ma senza sosta ci hanno privato della nostra identità o per lo meno ci hanno provato. Siamo tenaci ma di questa situazione di oppressione ritengo in parte responsabile anche il popolo sardo stesso: serve più consapevolezza.
Responsabile è però una parola forte, da non confondere con colpa, anzi: la responsabilità spesso conferisce al popolo la forza di cambiare la situazione.
Assolutamente, bisognerebbe imparare a valorizzarci come popolo, come terra, come cultura.
Nel panorama sardo ma anche in quello italiano, non ci sono pezzi fortemente schierati o se ci sono sono pochi. Come mai?
In situazioni del genere, come in questo conflitto di cui stiamo parlando, può essere difficile prendere posizione, soprattutto se a farlo è un personaggio pubblico. Nell’immaginario collettivo c’è la convinzione che sia giusto annientare il popolo palestinese, perché equivale a lottare contro il presunto terrorismo di cui si parla. Scrivere un pezzo come Gaza comporta dei limiti, credo che nessun ente abbia il coraggio di trasmettere una canzone così schierata.
Un artista con un grosso seguito avrebbe un’eco più ampia, ma pochi se non nessuno pare assumersi il rischio di farlo, proprio a causa del silenzio che viene imposto. Ma per quanto riguarda noi, ci va bene così: siamo dei roots rockers, ci piace lottare, c’è sempre piaciuto scrivere dei testi impegnati. La musica non dev’essere solo leggerezza.
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