I negoziati intermedi di Bonn: verso la COP29 di Baku la strada è tutta in salita
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È ormai tarda sera quando si chiudono i lavori dei negoziati intermedi UNFCCC SB60 di Bonn, ovvero quelli che coinvolgono i corpi sussidiari dell’accordo quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Dopo due settimane intense di lavori, la plenaria di chiusura al World Conference Center di Bonn, prevista per il pomeriggio di giovedì scorso, è stata convocata con diverse ore di ritardo. Il motivo, probabilmente, lo sforzo di trovare un accordo comune quanto più solido possibile sui testi che arriveranno sui tavoli negoziali della prossima COP a Baku.
NEGOZIATI A RILENTO
Nel suo discorso di chiusura a Bonn, Simon Stiell, segretario esecutivo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ha elogiato lo sforzo collettivo compiuto nelle due settimane di lavori, senza nascondere che quelli fatti a Bonn sono stati solo dei «modesti passi in avanti (…) Troppe questioni sono rimaste irrisolte. Troppi elementi sono ancora sul tavolo». Le decisioni in stallo, rimandate con una certa dose di rischio a Baku, sono numerose: «Non possiamo continuare a rimandare i problemi di quest’anno all’anno prossimo», ha ribadito Stiell.
Non ha giovato un’agenda particolarmente fitta di temi politici, che sin dal primo giorno era parso chiaro non potessero trovare una soluzione nella sede dei negoziati intermedi. E invece di avanzare spediti verso la COP29 in Azerbaigian, la macchina negoziale ha proceduto a fatica lungo una strada che si prospetta ancora tutta in salita.
MITIGAZIONE E FINANZA PER IL CLIMA
Sul tema della mitigazione, a Bonn si chiude con un deludente nulla di fatto. Addirittura viene tutto rimandato a Baku senza neppure aver provveduto né a una bozza né a una semplice nota informale. La delegazione delle Isole Samoa, come riportano gli osservatori di Italian Climate Network, nella plenaria finale ha parlato di «grande delusione», rispetto a «fallimenti che non ci possiamo permettere; trattandosi dell’unico punto all’ordine del giorno sulla mitigazione, dovremmo andare avanti ogni anno, cosa che non accade; abbiamo bisogno di risultati concreti, non questioni procedurali. Abbiamo visto tentativi chiaramente orientati a seppellire questo programma di lavoro».
Considerazioni simili anche da parte dell’Unione Europea: «Non ci è stato consentito di parlare di mitigazione, tantomeno di mandare avanti il processo». È come se il tema della mitigazione fosse ancora un grande tabù ai negoziati per il clima, ha denunciato il delegato svizzero. Alla fine, il delegato del Kenya, a nome dell’African Group, ha riportato l’attenzione sul nesso tra mitigazione e finanza: «Non possiamo ignorare, quando parliamo di mitigazione, i miliardi di famiglie che usano fonti fossili per vivere, cucinare, scaldarsi – per procedere con la mitigazione di quelle emissioni abbiamo però bisogno di nuova finanza per il clima».
Non è più confortante l’esito delle due settimane di negoziati rispetto al tema della finanzia climatica. A differenza di quanto avvenuto per la questione della mitigazione, quanto meno in questo caso si è giunti a un documento di trentacinque pagine, seppur caotico e disseminato di punti da chiarire. I negoziati di Bonn si erano aperti con un proposito ambizioso: lavorare sul nuovo obiettivo quantitativo globale in finanza per il clima o, con l’acronimo inglese, NCQG (New Collective Qantified Goal). Ovvero quell’obiettivo finanziario che tutti i governi mondiali dovranno prefissarsi dal 2025 in poi.
I giochi a riguardo sono ancora aperti e i mesi che condurranno a Baku si prospettano molto densi. Diverse nazioni, soprattutto i paesi in via di sviluppo, vorrebbero che questo obiettivo fosse di almeno 1000 miliardi di dollari all’anno – comprensivi di finanza per mitigazione, adattamento e perdite e danni –, decuplicando il precedente del 2009, con obiettivi intermedi e monitoraggi annuali sul loro raggiungimento.
Altri Paesi si accontenterebbero di obiettivi meno ambiziosi e assai inferiori a 1000 miliardi all’anno. Resta tutto ancora da decidere, soprattutto se a mancare è il “quantum”, ovvero quel nuovo numero-obiettivo capace di sostituire, il precedente obiettivo dei 100 miliardi di dollari all’anno che si è raggiunto solo nel 2022, con ben due anni di ritardo rispetto a quanto stabilito.
A mettere in stallo queste decisioni, la forte polarizzazione tra paesi in via di sviluppo e paesi cosiddetti sviluppati. I primi reclamano il fatto che questi negoziati sulla finanza climatica spostano il focus dalla necessità di intervento dei paesi principalmente responsabili del cambiamento climatico.
«Il problema – sostiene Vladislav Malashevskyy di Osservatorio Parigi – è trovare una metrica su cui basare la definizione di paesi in via di sviluppo e non. La si deve individuare in termini pro capite, in base a criteri relativi, assoluti, storici o in base alla situazione attuale? Vi sono paesi – come la Cina, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi – che a differenza di vent’anni fa hanno delle emissioni storiche non trascurabili». Vanno quindi ridefiniti gli assetti globali per individuare il nuovo obiettivo quantitativo globale in finanza per il clima.
I negoziati di Bonn si chiudono anche con un’immagine molto potente evocata dalle parole di Stiell: «Ci siamo ritrovati con una montagna molto ripida da scalare per raggiungere risultati ambiziosi a Baku», ha detto nel suo discorso conclusivo. Per arrivare in cima c’è bisogno dello sforzo di tutti, compresa la società civile, che osserva ciò che avviene nelle stanze negoziali e può influire sulle decisioni prese.
«In questi giorni a Bonn si è assistito a una partecipazione molto sentita di associazioni, ONG e di tutta la società civile – ha ricordato Domenico Vito, Osservatorio Parigi – In una protesta organizzata da Amnesty International è stata fatta luce sul tema dei conflitti globali, una sorta di sottotesto nei negoziati per il clima. Non possiamo dimenticare che non può esserci nessuna giustizia climatica senza rispetto dei diritti umani». E ricordarlo, è un dovere di tutta la società civile.
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