Afghanistan, dove sognare gelati anche se non esistono freezer
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Kandahar, sud dell’Afghanistan. Entro nella stanza del centro di protezione per le bambine della comunità e vengo accolto da un movimento istantaneo e coordinato di scialli a coprire le linee molli del viso. Qualche parola in pashtu basta a far capire che non c’è bisogno, almeno non quella volta. Piano le manine sporche di terra scoprono lo sguardo mostrando le sfumature cromate di decine di pupille incorniciate di trucco come da tradizione.
Qui e lì qualche piercing fatto di tappi di plastica sembra graffiare le fattezze di bambine delle narici. Senza grande successo, provo a intavolare una conversazione con le poche sillabe di pashtu a disposizione e la traduzione dall’inglese del collega. “Come ti chiami? Ti piacciono i giochi che fate qui? Chi è che fa la lanciatrice quando giocate a cricket?”.
Le risposte sono intermittenti e timide. Un misto di pudore e incomprensione ci allontana ogni secondo di più e sento scivolare via l’opportunità di ascoltare cosa batte tra le palpebre di quegli occhi accesi di vita e deserto. Il silenzio si fa profondo. Nell’ultimo spasmo di un tentativo evidentemente disperato, lascio andare la classica domanda di rito: “E cosa vorreste fare da grandi?”.
Non faccio in tempo ad ascoltare le ultime lettere scivolare via dalla bocca e mi rendo conto della inconsapevole crudeltà della domanda. Cosa vuoi fare da grande? I coetanei maschi rispondono il mujaheddin, il dottore o il pilota di aerei. La loro fantasia vola libera sulle ali di una ispirazione lunga come gli orizzonti del deserto intorno.
Ma tu, bambina di otto, nove o dodici anni, nata in un villaggio dell’area rurale di Kandahar in Afghanistan, tra le mura di fango di una comunità stretta tra le leggi asfissianti di una sharia che ha poco a che vedere con la religione, cosa puoi aspettarti dal tuo futuro? Dove puoi immaginarti tra dieci anni sapendo che l’educazione ti è vietata, che non puoi lavorare in uffici e bazar, che ovunque vai devi essere accompagnata da un familiare? Cosa puoi sognare?
Sento la vergogna della mia inopportunità stringere all’altezza dell’ombelico quando un indice poco più lungo di un fiammifero di allunga tra le onde di scialle color tramonto. Sibila poche parole con un filo di voce, guardando a terra mentre la falange si contorce su un punto della guancia. Le insegnanti vicine sorridono con dolcezza e traducono in inglese.
«Dice che vorrebbe fare l’insegnante come noi». Sorrido anche io, per un momento la vergogna evapora via. «Qualcun altra vorrebbe fare la maestra?», chiede con aria gioviale l’insegnante. Un nugolo di dita si alzano insieme, nel cicaleccio delle braccia tese un paio di labbra minute sussurrano: «Io la dottoressa come Khalida del centro di salute».
L’insegnante mi guarda ancora e accenna un sorriso che questa volta si increspa sul finale. Sa anche lei che quei sogni, per ora, non possono essere altro che sogni. Non è il tempo, non è il luogo. Ciononostante sono lì, vivi e pulsanti tra un oceano di pudore e strettezze e tanto basta a renderli l’orizzonte di qualcosa che chiede solo tempo per arrivare. In Afghanistan e ovunque in una terra che ha fatto della virilità il parametro delle cose.
Esco e mi ritrovo davanti il ventaglio di scarpe, sandali e calosce delle bambine. Ce n’è una con un disegno di gelati colorati. Gelati dove non esistono freezer per conservarli. Sorrido pensando che non ci sia simbolo più evidente della resilienza della bambina che vuole essere insegnante. Immaginare gelati lì dove non esistono freezer. Sapersi più forte dell’aridità soffocante del mondo intorno. Trattengo un rantolo di nostalgia per un tempo che deve ancora venire. E anche una gran voglia di gelato.
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