La musica libera di Gianfranco De Franco, sempre in bilico e senza confini
Seguici su:
Cosenza - Gianfranco De Franco è un polistrumentista, musicologo e musicoterapeuta. O in altre parole, le sue, «una persona che ha scelto di vivere immerso nella musica». Lo incontro nel suo studio di Perugia, un vero e proprio rifugio dai rumori del nostro tempo, tra spartiti, casse, leggi, strumenti e la tela de “La danza di Matisse” in attesa di essere musicata, che dal monitor ogni tanto ruba la sua attenzione.
Gianfranco è calabrese di Laino Borgo, l’ultimo paese alle porte con la Basilicata, noto ai più per la lunga tradizione delle sue bande musicali. Ed è proprio in una di queste che prende le sue prime mosse da musicista. A dieci anni si presenta alla banda del suo paese perché vuole suonare i piatti, mi racconta divertito. «Era il modo più veloce di entrare, aggirando i 3-4 anni di prove e studio necessari per qualunque altro strumento».
«Ma il maestro Calvosa mi prese le mani e decise che erano sono mani da clarinetto! Non so quanto fosse per le mie mani [scherza, ndr] ma gli sono riconoscente perché ha cambiato la mia vita, da lì ho capito che il mio futuro sarebbe stato un “lungo soffio”». A 18 anni si trasferisce a Cosenza e frequenta contemporaneamente il Conservatorio Stanislao Giacomantonio e il DAMS/Musica dell’Università della Calabria, per concludere con la specializzazione in musicoterapia.
Sul palco, a teatro o tra i banchi di scuola per insegnare il clarinetto agli studenti, Gianfranco è come un architetto che architetta schemi da abbattere subito dopo. La sua musica sperimentale e ambient lambisce new age, metal industrial e musica contemporanea. I suoi lavori, sia live che discografici, sono sempre in bilico tra i diversi strumenti a fiato e l’elettronica minimale di taglio vintage: clarinetti, sassofoni, flauto traverso, flautini di varie zone geografiche, strumenti tradizionali, synth, pedal effect con relative manipolazioni elettroniche, strumentario Orff.
Oggi vivi a Perugia, lavori in tutta Italia e all’estero, ma è in Calabria che ha forgiato la tua formazione. Credi che questo ti abbia penalizzato?
Non credo, anzi l’ho vissuto come un’opportunità in più rispetto a chi ha studiato nelle grandi città. Vivere in un paese piccolissimo e studiare in una città come Cosenza mi ha dato una marcia in più, sapevo di non poter trovare quello che si trova nelle grandi metropoli, dove l’apparato musicale è a livelli altissimi, ma proprio questa mancanza mi ha dato la voglia, la spinta, la forza di ricercare dentro me stesso qualcosa che mi permettesse di sopperire a questa assenza.
Personalmente l’ho vissuta così e mi ritengo fortunato, so che altre persone questa voglia e questa opportunità non se la sono data, vivendo in maniera a-dinamica, affossati sull’ambiente circoscritto e quindi sono rimasti un po’ chiusi in quell’ambiente. Poi considera che il conservatorio, al di là della geografia, è un luogo dove rischi di essere omologato.
E per sfuggire all’omologazione è indispensabile la conoscenza. Insegni alle scuole medie, ti immagino come una sorta di consigliere che accompagna e alfabetizza i giovani alla musica. È così?
Sì, è così. L’insegnamento ti fa toccare con mano quello che vivono i ragazzi di oggi, cosa ascoltano, come si nutrono di musica. Devo dire che purtroppo c’è una disattenzione a quello che si ascolta, dovuta a una sorta di sovraffollamento acustico, che oserei chiamare inquinamento. Mi capita, alla domanda “che musica ascolti?”, di ricevere come risposta “non ascolto musica”. È una risposta che non ti aspetti e che non riesci a concepire, perché la musica in sé è all’interno dell’audio quotidiano, non posso immaginare che non ne ascoltino.
Forse hanno ragione. Non la ascoltano, la subiscono.
La subiscono in maniera negativa. Spesso i ragazzini non hanno molti input dalla cerchia familiare, quindi ascoltano quello che ascoltano tutti, quello che ascolta la massa in questo periodo storico. È quasi un’azione di propaganda, che si trasmette e alimenta tra amici.
Come fai a farti ascoltare in questa situazione?
Parto da quello che ascoltano loro, chiedo loro di sopporre alcuni brani, li ascoltiamo insieme e poi iniziamo a giocarci sopra con il clarinetto. È un percorso in cui il clarinetto suona e vive ambienti diversi, è uno strumento così duttile timbricamente che possiamo inserirlo in qualunque contesto, dalla trap all’elettronica, dal blues al jazz e ovviamente sempre nella musica classica, che è indispensabile per capire la natura timbrica dello strumento. Poi settimanalmente do loro un ascolto come compito. A fine anno hanno incontrato tanti mondi sonori e questo aiuta una crescita che li porta a essere più attenti e curiosi a quello che ascoltano.
Per ascoltare, invece di subire.
Esattamente, dove l’ascolto era superficiale, si fa più profondo. Iniziano a prendere il gusto di ascoltare e, in questo flusso che lavora sulla propensione all’ascolto, riescono ad ascoltarsi meglio anche tra di loro.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento