Fawzi Ismail: “Il genocidio ci riguarda, il territorio sardo viene usato per armare Israele”
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«Avevo sei anni quando sono stato cacciato da casa mia durante la Guerra dei sei giorni, nel 1967. Il mio paese natale, in Cisgiordania, è stato distrutto dall’esercito israeliano che avanzava sparando coi carri armati, mentre le persone scappavano. Ricordo i caccia bombardieri e la sofferenza delle persone in fuga e non dimentico. I palestinesi non dimenticano. Le nostre rivendicazioni, il diritto a tornare a casa, la giustizia e la libertà, la nostra esperienza collettiva e personale, tutto ciò non può essere dimenticato. Sono arrivato in Sardegna negli anni ’80, ma non ho mai smesso di essere palestinese».
Fawzi Ismail è un medico palestinese, presidente di Amicizia Sardegna-Palestina, associazione attiva a Cagliari dal 1997. La sua è la testimonianza diretta di come la risoluzione Onu “due popoli due stati”, ovvero la formula che vedrebbe la nascita di uno Stato ebraico accanto a uno arabo-palestinese, sia in realtà prassi irrealizzabile davanti all’ideologia sionista che fonda lo stato israeliano. Ma non solo. A 76 anni dalla Nakba, la situazione attuale mostra come «si continua a negare l’esistenza e il diritto all’esistenza dei palestinesi, col supporto dell’occidente: tra armi, esercitazioni, ricerca universitaria e silenzio complice, il genocidio ci riguarda».
Ieri era il Giorno della Nakba, “la Catastrofe”, in cui si commemora lo sfollamento di oltre 800.000 palestinesi a seguito della creazione, nel 1948, dello stato di Israele.
Il ’48 è una data simbolica, la cosiddetta catastrofe dei palestinesi nasce prima. L’idea di colonizzare la Palestina è stata messa in pratica e accelerata nel ’48, ma bisogna considerare che il movimento sionista si sviluppa fine dell’800, con un movimento politico razziale che cercava un posto dove creare uno stato ebraico col supporto dell’imperialismo dei colonizzatori occidentali. Si tratta di un’intenzione politica ovvero insediare un avamposto occidentale in Medio Oriente per controllare, saccheggiare e dividere la regione araba, e in seguito per liberarsi dagli ebrei in Europa. Due obiettivi sposati dal movimento sionista e dal colonialismo occidentale, che hanno generato da allora una lunga serie di catastrofi.
Mio babbo e mio nonno sono sfollati nel ’48 dalle loro terre, io ho vissuto il ’67 quando il mio paese è stato distrutto. Ricordo la casa dove stavo, l’uliveto, le vigne e il nostro centro storico. Ricordo benissimo la guerra: all’inizio per qualche giorno siamo scappati dall’aviazione poi dai carri armati; fuggivamo verso est, nel campo profughi in Giordania. Dormivamo all’aperto finché non abbiamo trovato il modo di attraversare un ponticello nel fiume Giordano; ricordo il dolore delle persone nel tragitto. La gente è scappata col ricordo del ’48, quando i sionisti hanno fatto diversi massacri contro i villaggi palestinesi; hanno terrorizzato le comunità per avere la terra senza le persone.
“Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, era uno degli slogan usati dai favorevoli alla creazione dello Stato di Israele.
Sì, già da allora negano l’esistenza dei palestinesi e questa idea c’è ancora oggi nella mente di molti europei. Parallelamente, Israele da tempo cerca di dimostrare la storica presenza di uno stato ebraico in Palestina. Non c’è però nessuna prova scientifica e archeologica che lo attesti: sicuramente come popolazione ebrea, come diversi altri popoli sono passati in Palestina ma le loro rivendicazioni si basano sulla Bibbia, che non è però un testo scientifico.
A prescindere dalle attestazioni è comunque un pretesto: il diritto al ritorno dei palestinesi è sacro e tutelato dal diritto internazionale. Eppure spesso quando parlo con europei del diritto al ritorno nei territori occupati mi viene detto: “Si, ma è passato tanto tempo”. Quindi a noi negano, in virtù del tempo trascorso, di tornare a casa, però parallelamente si giustificano le azioni di Israele che rivendica quella terra dopo tremila anni. Razzismo e negazionismo qua sono alla base del pensiero: io sono nato in quella terra, ho ricordi lì, mio babbo ha lasciato la casa che c’è ancora, però viene tollerata e supportata l’azione di chi non ha alcun legame con quel luogo, ne affettivo ne storico.
Guardando a ciò che accade oggi, ancora quando si parla del conflitto viene spesso fatta esplicita richiesta di condanna verso i fatti del 7 ottobre, come incipit delle argomentazioni. Questa prassi è molto criticata, perché si tratta di una richiesta problematica?
Perché il mondo occidentale quando guarda alla Palestina vede la reazione dei palestinesi, ma non vede il primo atto contro di loro. Non si parla si colonizzazione ma bisogna farlo: gli occidentali attraverso Israele colonizzano la Palestina ma non vogliono ammettere che sia una terra occupata quindi si ha una reazione negazionista. In base a questa logica i palestinesi devono soffrire, morire, essere incarcerati e deportati. Bisogna distruggere le loro case, ammazzare i loro figli e loro non devono reagire. La risposta dell’occidente al 7 ottobre è stata negazionista e isterica, come se il mondo stesse andando in frantumi: ma è il loro mondo imperialista e capitalista che sta andando in frantumi.
Gaza è stata sotto assedio dal 2007 fino al 7 ottobre, da quando è terminato l’assedio ed è iniziato il genocidio. In questi anni il mondo intero non ha visto Gaza, eppure c’erano due milioni di persone in un carcere a cielo aperto circondato da Israele che mandava viveri e medicinali col contagocce. Le persone erano senza futuro: i giovani alla domanda cosa vuoi fare da grande si mettono a ridere, dicono “verremo uccisi prima”. In questi anni quante aggressioni ha fatto Israele contro la Palestina? Sono stati uccisi 10mila palestinesi e nessuno dei vari signori razzisti dell’occidente ha aperto bocca. Hamas ha fatto il 7 ottobre quello che Israele fa da 76 anni, anzi: solo una piccola parte.
L’opinione pubblica però sta cambiando: aumentano proteste e boicottaggi, le richieste di cessate il fuoco e stop al genocidio, sicuramente non senza criminalizzazioni del dissenso da parte delle istituzioni.
Sì, perché sono emerse narrazioni antistoriche non più sostenibili. Vediamo le reazioni dei giovani nelle università, oggi i canali di informazione possono essere tanti, le persone vedono la realtà e il dissenso è un fatto eclatante e importante perché mette in discussione il sistema liberale. I giovani sottolineano come in occidente si parli di diritti umani, internazionali, di libertà di stampa e di espressione, ma è tutto falso. Le università da luogo di conoscenza e dibattito sono diventate centri per creare mostri e aziende, soprattutto per la ricerca bellica. Pensiamo a quante università al mondo hanno rapporti con Israele: è indicativo di quanto il mondo supporti Israele.
L’occidente arresta e demonizza i suoi stessi ragazzi che scendono in piazza non solo per i palestinesi, non rivendicano soltanto lo stop al genocidio o il taglio dei rapporti universitari: stanno lottando anche per i loro diritti, per non fare sì che si compiano massacri nel loro nome. Ma poi, uno stato che arresta e manganella come abbiamo visto centinaia di studenti che protestano contro un genocidio e chiedono il cessate il fuoco, può dire ad altri stati che devono essere più democratici? O ancora, se penso alla negazione del diritto all’aborto: davvero gli stessi governi puntano il dito contro l’integralismo islamico?
In tutto ciò, qual è il legame tra Sardegna e Palestina? E qual è il ruolo dell’Isola?
Siamo popoli del mediterraneo, il legame è quindi storico e culturale. Sono però anche terre caratterizzate da una occupazione militare: sicuramente non paragono le due, i sardi in Sardegna ci sono e in Palestina no, ma ci sono aspetti concreti come il fatto che l’aviazione israeliana si è addestrata qua per poi andare a colpire i palestinesi; è responsabilità dei sardi che devono continuare a impedire le esercitazioni di guerra.
Penso però anche alla fabbrica di bombe di Domusnovas che manda ordigni a Israele e collabora con la Leonardo per sviluppare droni. Il territorio sardo viene usato per armare gli israeliani, è complice del genocidio. Chi lotta contro le basi militari in Sardegna lotta anche per la Palestina e viceversa. In conclusione, la verità deve essere dei popoli e i popoli oppressi vinceranno. La colonizzazione non può durare per sempre.
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