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L’assonanza tra abiti, abitudine e abitare non è affatto casuale. Etimologicamente son connesse al latino habeo, verbo avere e ausiliare, che indica l’azione del contenere, del possedere in tutte le possibili sfumature di significato. L’abito indica quindi ciò che è posseduto, l’abitudine il trasporto di ciò che si possiede e l’abitare indica lo stato nel luogo che si possiede.
Spesso il termine “costume” viene percepito nel suo significato un po’ svilente di travestimento e quindi “abito tradizionale” pare essere una definizione più appropriata. In entrambi i casi comunque queste due parole sono utilizzate come sinonimi di indumenti storici o, anche meglio, indumenti di memoria storica.
ABITI O COSTUMI?
Etimologicamente mi schiero a favore della definizione di abito perché, come anticipato, indica il simbolo del mostrare il possesso culturale ovvero la manifestazione visiva della cultura che ci è propria. Grazie al fenomeno della folclorizzazione questa espressione popolare ha potuto palesarsi senza la vergogna della diversità che ha caratterizzato il contesto statuale italiano del ventennio e del dopo guerra. Benché il fenomeno folclorico attualmente possa essere contestualizzato in chiave di spettacolarizzazione globalizzata quindi, va valutato anche alla luce della grande forza identitaria di resistenza rifunzionalizzata isolana.
Dagli abiti è possibile vedere il radicamento interno alla terra sarda ma anche le influenze delle culture altre che si son susseguite nei secoli. L’occasione per esprimere queste sfaccettature d’identità consapevole riguardano, anche in questo caso, la sfera del sacro che si esprime attraverso la devozione. Con la primavera, la rinascita della terra è evidente anche dalle espressioni floreali, dai colori luminosi dei sorrisi e degli abiti del popolo sardo in ogni sua sfumatura. Tutti riuniti per mostrare al mondo lo splendere della loro gratitudine per il ritorno della luce. La processione di Sant’Efisio a Cagliari ha una grande importanza per tutti noi.
Nel vedere procedere i rappresentanti di molte comunità dell’isola si può comprendere subito come non si tratti di una passerella fine a se stessa, ma di una manifestazione di presenza culturale. Dai colori degli abiti è chiaro il radicamento: i marroni, i verdi e i gialli ocra dell’entroterra coi suoi boschi e le sue montagne si accompagnano agli azzurri, porpora e giallo oro delle coste con le sue limpide acque e le sue sinuose spiagge. Il tutto sostenuto dai tre colori che appartengono tanto alla Grande Opera alchemica quanto alla nostra bandiera: il nero della Nigredo, dei mori e dell’orbace; il bianco dell’Albedo, dello sfondo e delle camicie; il rosso della Rubedo, della croce greca e della Guardiania.
ABITUDINE O TRADIZIONE?
Nell’articolo sulla gestualità ho raccontato il ruolo magico-religioso dei segni significativi. Ciò che nel quotidiano è automatismo gestuale condiviso diventa una ritualità liturgica devozionale nei tempi di festa. L’abitudine quindi è la manifestazione di una predisposizione interiore, ma anche l’espressione dell’identità che, se trasportata nello spazio – interno dell’isola o esterno del mondo – e nel tempo indefinito, diventa tradizione. Tramandare le buone abitudini è l’azione della tradizione esattamente come fa il giogo di buoi che trasporta l’oggetto del sacro in processione.
Il giogo è un simbolo di grande importanza nella nostra cultura: spesso citato nei presunti rituali di fine vita, indica il dominio delle forze ancestrali, ma anche la padronanza sulla dualità dell’esistenza. Personalmente, uno dei metodi divinatori universali che utilizzo per ricevere segni che riguardano le sorti della mia terra è proprio quello di riflettere sul nome del giogo di buoi delle principali feste sarde in primavera. Quello di Sant’Efisio quest’anno si chiamava “Faidì biri” e “ Chini ses” cioè “Fatti vedere” e “Chi sei”, che penso che sia un nome davvero profetico in quest’epoca di assalti, predazioni e violenze per la nostra isola e per l’intero pianeta. Penso anche sia davvero azzeccato affinché ognuno ne tragga il proprio responso.
ABITARE O ESSERE CULTURA?
Essere è anche stare nella propria identità, radicarsi come alberi maestosi nel territorio che ci ha visti nascere o rinascere, accolti dal ventre della grande madre che ci ha fortemente voluti. La responsabilità di un patto cosciente di tale portata è profonda quanto il legame stesso. Da qui il passo della ricerca delle radici, della ricerca interiore, è automatico e in tanti auspichiamo che sempre più porti a una valorizzazione e tutela del nostro patrimonio perché terra è corpo e viceversa. In questo senso, tutti siamo paesaggio, perché il concetto meramente estetico ha poco a che fare con questo sentire.
Non si tratta di panorama ma di unione funzionale e armonica tra natura e cultura, di cui il nostro popolo potrebbe essere esempio maestro. Se corpo è terra, i piedi son radici. A tal proposito mi diverte pensare che le scarpe siano considerate attualmente non un capo d’abbigliamento ma un accessorio, come se fosse possibile farne a meno, come se la vera inclinazione del piede fosse la nudità. Anche nel mondo folclorico si può capire tanto di ogni comunità guardando i loro piedi, analizzando se dotati o meno di Cosingius e soprattutto di quale tipo, si può già comprendere la conformazione geografica e in parte anche le peculiarità.
Il fatto che in lingua sarda le scarpe abbiano un nome che indica l’atto del cucire, del collegare le parti attraverso l’uso attento del filo, ha un significato simbolico ed esoterico profondissimo. Siamo un popolo che si costruisce attraverso i legami. Ci stringiamo l’uno all’altro come i componenti delle scarpe, per volere del destino ci uniamo fino a formare un unico strumento che sia isolante e funzionale nel rapporto con la terra.
Seus totus sabateris de su sentidu nostu e su connotu est s’andala.
Siamo tutti calzolai della nostra conoscenza e la tradizione è la via.
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