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Matera, Basilicata - La scrittura come forma meditativa o addirittura liberatoria. Su questo presupposto è nato S-catenati, oltre l’errore, un giornale realizzato con la collaborazione dei detenuti della Casa Circondariale di Matera, grazie all’idea e agli sforzi dell’associazione di volontariato penitenziario Disma. È un periodico trimestrale che racconta le storie di chi abita il carcere, creando un legame tra il dentro e il fuori delle mura carcerarie.
Edito dall’associazione, S-catenati è distribuito principalmente nell’Arcidiocesi di Matera-Irsina nonché all’interno del carcere, ma anche agli abbonati ai quali viene spedito a casa. Un numero già alle spalle e il prossimo in cantiere. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Pace, presidente di Disma e quindi editore del giornale, e Luca Iacovone, direttore responsabile.
A chi è venuta l’idea?
Pace: È proprio da loro, specie dai detenuti più giovani, che è nata l’idea di “fare un giornale”. Quando all’idea si è aggiunto il sostegno del cappellano fra Gianparide Nappi e l’affiancamento dei volontari, è nata l’associazione di volontariato penitenziario Disma Odv, proprio per realizzare il giornale. Molto spesso i detenuti usano la scrittura come metodo catartico, a volte scrivono gli articoli in una sola giornata. Già in passato, prima di cominciare con il giornale, ricevevamo alcuni testi sulle loro giornate, su quello che fanno oppure delle poesie, scritti dedicati ai figli, ai padri o ad altri familiari. Comunque era uno strumento che utilizzavano già.
Fare un giornale non è mai semplice, figuriamoci in carcere.
Pace: Il processo è stato complesso, l’iter burocratico impegnativo, abbiamo aspettato un anno prima di avere l’approvazione del progetto. Ma attenzione, S-catenati non è un giornale dei detenuti, è il giornale dell’associazione con il contributo dei detenuti che scrivono alcuni articoli.
Raccontare il carcere attraverso le voci e le storie di chi lo abita ovvero i detenuti: è questa la linea editoriale del giornale.
Iacovone: Per noi parlare di carcere significa parlare di tutti quelli che lo abitano ma anche di chi ci lavora, che spesso – a causa della narrazione dominante e dei tanti limiti del carcere in Italia – vede frustrato il proprio lavoro, anche se nonostante le difficoltà prova a fare del suo meglio.
Non è un megafono di denuncia e nemmeno una lettura buonista. Allora cos’è?
Iacovone: È il racconto della complessità che c’è dietro ogni storia. Ecco perché vogliamo raccontare storie. Non belle storie o buone notizie, ma storie: la complessità che riguarda tutti. Vorremmo provare a raccontare le storie delle persone che abitano il carcere a vario titolo, dall’educatore al detenuto al volontario, come ci riguardano e non sono la discarica che guardiamo da fuori.
Lavorare in ambienti di questo tipo, non perdendo di vista la complessità richiede una tensione emotiva non indifferente.
Pace: Non facciamo niente di straordinario, se ci pensi mettiamo in atto un versetto del Vangelo: “Eri carcerato e sono venuto a trovarti”. Nient’altro. Nel nostro statuto abbiamo riportato questa frase.
In carcere le restrizioni sono la regola. I limiti imposti da Ministero, provveditori e dipartimenti, l’informazione filtrata, i social vietati. I detenuti non hanno piena capacità di essere informati su quanto accade lì fuori. Come si superano questi limiti?
Iacovone: Al momento non stiamo ancora lavorando in questo senso. Il nostro obiettivo non è chiedere ai detenuti di commentare la guerra a Gaza, ma di raccontare le loro storie, di raccontarci come sono arrivati fin qui. Cosa c’è dietro il reato, perché chiunque un giorno può ritrovarsi in galera, la galera non è la discarica della società, c’è chi è finito in galera per vie che puoi scoprire anche affini alle tue vicende personali. E ti dici: c’è lui, potrei esserci anche io.
E i limiti su quello che scrivono?
Iacovone: Gli articoli che scriviamo con i detenuti vengono guardati insieme ai responsabili dell’area trattamentale all’interno del carcere, non come forma di censura – finora possiamo testimoniarlo a gran voce – quanto piuttosto per porre l’attenzione rispetto a quelle informazioni che uscendo dal carcere potrebbero essere travisate e danneggiare gli stessi detenuti.
In questo momento storico chi fa giornalismo non può esimersi dal confrontarsi con i mostri del nostro tempo: disinformazione, manipolazione, fake news. La propaganda che lentamente si sostituisce all’informazione. Quelle mura hanno in qualche modo protetto i detenuti dalla comunicazione massiva dei social, dalla lettera distorta della realtà?
Iacovone: È strano, a volte è folgorante, entrare e ritrovarci a parlare con delle persone che sono fuori da un circuito di informazione che per chi è fuori è la nebbia dentro la quale camminiamo. Loro effettivamente sono fuori da questa nebbia. Ci siamo abituati a far passare dallo schermo del telefono qualsiasi cosa accada, sia mentre la riceviamo che per raccontarla. Quando dentro mi hanno chiesto com’è andato l’evento di presentazione, il primo gesto automatico è stato mettere la mano in tasca per prendere il telefono e mostrare loro quanta gente c’era.
E invece in carcere la parola è ancora l’unico strumento grazie al quale puoi rappresentare la realtà. È uno sforzo non indifferente, anche per chi con le parole lavora. Pensare a una informazione disintermediata dall’emozionalità delle immagini, dei video, dalla rapidità degli scrolling sui social, interroga noi. Interroga chi entra in carcere e si trova a dover costruire una relazione non più basata su mostra-vedi-registra-scatta-riprendi-mostra, mette in discussione tutto e apre gli occhi a noi sul nostro modo di consumare le notizie.
L’associazione si ritrova adesso a rivestire ruolo di editore; come si fa da un punto di vista economico e della disponibilità?
Pace: Il primo anno è stato grazie alla solidarietà delle associazioni e dei cittadini del nostro territorio. Con il giornale speriamo di aver qualcosa in più. Lo diceva l‘altro giorno Luca ai detenuti, mentre discutevamo del giornale: speriamo di avere una postazione con un computer e l’occorrente per fare un giornale.
Il giornale può continuare a esistere solo se qualcuno lo sostiene. Per sostenere S-catenati si può contribuire con una donazione e scrivendo una mail a: disma@gmail.com.
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