La Repubblica Democratica del Congo fra colonizzazione, risorse e la prima donna al potere in Africa
Seguici su:
Il 7 febbraio 2024, allo stadio olimpico di Abidjan, si gioca la semifinale della Coppa d’Africa 2024 fra i padroni di casa della Costa d’Avorio e la Repubblica Democratica del Congo; la Costa d’Avorio si aggiudicherà la partita, ma quello che rimane nella memoria dei presenti e travalica l’importanza del risultato sportivo è il gesto dei giocatori congolesi, che prima dell’inizio del match mimano con la mano sinistra una pistola puntata alla tempia, coprendosi al contempo la bocca con la mano destra.
A questa posa i calciatori affidano il loro grido di aiuto, questo evento dà loro la visibilità che, inspiegabilmente, è da anni negata dal circuito mass mediatico globale al loro travagliato paese, afflitto da una gravissima crisi umanitaria e da una logorante instabilità politica.
La Repubblica Democratica del Congo si potrebbe definire l’archetipo dell’Africa, di cui geograficamente rappresenta il cuore. Si tratta di un paese immenso – il più esteso del continente, dopo l’Algeria –, ricchissimo di risorse naturali, ma dall’economia fragile e stentorea e perennemente afflitto da povertà e sconvolgimenti. La sua storia affonda le radici fino al XIV secolo, quando l’allora Re del Congo regnava su un territorio, a sud dell’omonimo fiume, compreso grosso modo fra il centro del continente e le sue coste occidentali.
Nel 1400 si apre in Europa la stagione delle grandi esplorazioni e, alla fine del secolo, i portoghesi sbarcano sulle coste atlantiche del Regno; il rapporto fra il potentato locale e i portoghesi si protrae per quasi quattro secoli, caratterizzato da una prima fase di profonda e tenace attività di evangelizzazione e da una successiva integrazione del territorio nel macabro circuito della tratta degli schiavi.
Dopo una breve parentesi olandese, la Conferenza di Berlino del 1885 assegna al Re Leopoldo II del Belgio il mandato di una consistente parte del Regno del Congo, che insieme ad altri territori determina la configurazione della Repubblica Democratica del Congo come la conosciamo oggi.
Denominato Stato libero del Congo e costituito come proprietà personale del sovrano belga, il paese attraversa una lunga fase di patimento e violenza: il territorio congolese è ricco di disponibilità naturali e Leopoldo II istituisce un intenso sistema di sfruttamento delle risorse del sottosuolo – biomasse, diamanti, avorio, oro e soprattutto gomma, preziosissima per alimentare la produzione di pneumatici, al servizio della nascente industria automobilistica.
La popolazione viene sottomessa, sostanzialmente schiavizzata e dedicata all’attività estrattiva in condizioni di lavoro massacranti, con quote minime di rendimento, non raggiungendo le quali veniva fisicamente brutalizzata. L’agonia del paese si protrae fino al 1908, quando in seguito a un movimento d’opinione animato da diversi intellettuali europei, Leopoldo II decide di rinunciare al possesso personale del territorio, che viene ricostituito in una colonia formale del Regno del Belgio. La metropoli si adopera dunque per rimettere insieme un paese devastato dell’efferato sfruttamento privatistico da parte del proprio sovrano, costituisce un governo coloniale più strutturato e intraprende un programma implementazione infrastrutturale.
Negli anni Sessanta arriva anche per la Repubblica Democratica del Congo l’epoca dell’indipendenza: il 30 giugno 1960, sotto la guida formidabile leader Patrice Lumumba, il paese diventa indipendente. La capacità di Lumumba di penetrare l’animo dei congolesi è mirabilmente descritta nelle pagine del giornalista Ryszard Kapuscinski, che racconta come, in uno sconfinato paese composto da migliaia di comunità isolate le une dalle altre, l’unico modo per evocare una identità comune è attraversarlo da parte a parte, parlando con la gente.
E così fa Lumumba. L’affetto e il consenso che si guadagna, tuttavia gli costano la vita: il suo vecchio sodale, Joseph Mobutu, appoggiato da interessate potenze occidentali, dispone la sua eliminazione e ne prende il posto al comando del paese. Mobutu, violento ed egocentrico dittatore, avvia una cleptocrazia repressiva e oscurantista: lo Stato viene rinominato Zaire e il suo ricchissimo sottosuolo diviene fonte di inarrestabile arricchimento per il suo leader.
La fine della dittatura di Mobutu conduce al drammatico prologo della situazione attuale: nel 1996 il generale Kabila rovescia il governo di Mobutu con l’aiuto delle forze militari di Ruanda e Uganda. L’instabilità che segue si estende agli Stati confinanti e ha inizio quella che verrà poi, con drammatica pertinenza, definita “guerra mondiale africana”: una lunga serie di violentissimi scontri armati con conseguenze genocidarie che ha sconvolto l’Africa Centrale e la regione dei Grandi Laghi fino al 2004.
Dopo una lunga fase di instabilità, la situazione persevera nella sua drammaticità, laddove violenti gruppi armati terrorizzano attualmente la popolazione delle regioni nordorientali di Kivu e Ituri. Non è casuale che la situazione di crescente tensione sia localizzata a ridosso del confine con il Ruanda, poiché è ormai di dominio pubblico l’endorsement del vicino orientale nei confronti del March 23 (M23), un gruppo armato di spregiudicati ribelli che minaccia costantemente i civili locali con azioni di guerrilla truci e inumane.
Lo scopo – costantemente raggiunto – è di obbligare la popolazione a decentrarsi rispetto a determinate zone ricche di giacimenti di minerali – particolarmente ambito è il coltan, necessario alla produzione di dispositivi hi-tech e abbondante nella regione. Reciproche accuse fra il presidente ruandese Paul Kagame e l’establishment congolese sono all’ordine del giorno e il timore di un’escalation militare è giustificato, anche per il fallimento della missione di paecekeeping delle Nazioni Unite, in procinto di abbandonare la Repubblica Democratica del Congo.
In un paese profondamente parcellizzato, senza una vera identità comune se non la sofferenza condivisa, senza infrastrutture, senza industria di conversione per le sconfinate ricchezze del sottosuolo, il bisogno di una figura aggregante è indifferibile. Si guarda dunque con favore e speranza all’elezione di Judith Suminwa, la prima donna nella storia del paese investita della carica di Primo Ministro. E forse proprio dalle donne, una delle categorie più inermi e tormentate della penosa storia del gigante africano, può arrivare la risposta al desiderio di riscatto di un intero paese, nella speranza che il travagliato processo di peacebuilding sia davvero a una svolta decisiva.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento