Italcementi, un processo per disastro ambientale sulla collina che trasuda veleni
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Sud Sardegna - Nel 2017, la scoperta delle discariche abusive in cui fino al 2016 venivano scaricati fanghi tossici e altri rifiuti provenienti dalla Fluorsid fu uno shock per molti. Non si può dire altrettanto per le aree interne ed esterne al cementificio Italcementi di Samatzai, poste sotto sequestro dalla Procura di Cagliari due anni dopo, nel 2019.
E pensare che, sversamento dopo sversamento, nelle campagne di Su Linnarbu è perfino venuta su “una collina dei veleni” grande quasi quanto un palazzetto dello sport. L’inchiesta non ha però avuto la stessa eco, nonostante il processo per disastro ambientale – ad oggi in corso – che ne è seguito. Imbottita com’è di polveri solidificate nel tempo, cemento-amianto e pezzi di nastro trasportatore, la collina artificiale di Su Linnarbu trasuda veleni.
INQUINAMENTO? PER ITALCEMENTI ROBA DEL 1920
A sentire l’ex direttore del cementificio Salvatore Grimaldi Capitello, intercettato l’11 luglio 2019 al telefono con Roberto Crescimbeni – subentratogli poco prima alla guida dello stabilimento –, «a Su Linnarbu c’è roba del 1920». Intende dire che non c’è di cui preoccuparsi: «Tutto ciò che c’è di strano è ante, ante, ante, anni ’70, anni ’80, ma che cazzo vuoi…». Di quanto accadde a Su Linnarbu negli anni ’70 ne parla anche l’Enea. Peccato però che per l’agenzia quel periodo rappresenti solo l’inizio di una serie di sversamenti che si protrarrà fino al 2019. E cioè, per così dire, fino a un attimo prima che scattassero i sigilli dei carabinieri del Nucleo operativo ecologico (Noe) e della stazione di Nuraminis.
A queste conclusioni è arrivato il Laboratorio Tecnologie per la dinamica delle strutture e la prevenzione del rischio sismico e idrogeologico del Centro ricerche di Bologna. I ricercatori sono andati a caccia delle modifiche subite dall’area oggetto di studio, confrontando le immagini del passato con quelle più recenti. Più precisamente si tratta di ortofoto, aeree e satellitari ad altissima risoluzione, interpretate e processate attraverso telerilevamenti, algoritmi e modelli digitali in 3D: l’Enea arriva alle sue conclusioni attraverso uno studio condotto con le migliori fonti e tecnologie a disposizione.
LE ACCUSE: DA INQUINAMENTO A DISASTRO
Ecco perché questo documento assume una straordinaria importanza nell’ambito del processo che vede alla sbarra i quattro dirigenti di Italcementi Salvatore Grimaldi Capitello, Basilio Putzolu, Ignazio La Barbera, Lorenzo Metullio e l’esterno Giuseppe Cataldo, direttore dei lavori in un progetto finito nel mirino della Procura. Davanti al giudice compare anche lo stesso colosso dei materiali da costruzione ai fini della responsabilità civile. Le accuse vanno a vario titolo dall’inquinamento al disastro, anche ambientale, dalla discarica e alla gestione non autorizzata di rifiuti.
C’è pero qualche problema. Le ortofoto digitali su cui si basa sono al momento rimaste fuori dal processo, perché consegnate tardivamente alla difesa. Così ha deciso il collegio presieduto dal giudice Giovanni Massida. Certo, il dibattimento è ancora lungo e lo stesso collegio potrebbe cambiare decisione su questi preziosi documenti: gli avvocati di parte civile promettono battaglia.
ECCO I VELENI DELLA COLLINA
Sorta sui venti ettari ceduti dalla Italcementi alla controllata Ital real estate nel 2019, la collina dei veleni di Su Linnarbu lascia ammutoliti. Soprattutto quando se ne osserva il costone che dà a nord. Questa scarpata innaturale mostra strati di polveri compattate, banchi di mattoni d’altoforno e rifiuti da demolizione. Qua e là, per decine di metri, lunghissimi pezzi di nastro trasportatore e imballaggi di plastica di ogni dimensione. «In passato alla base di questo lungo muro di scarti ho osservato una schiuma lattiginosa che ribolliva come lo scarico di una lavatrice», racconta oggi Alberto Musio, carabiniere in pensione, che non ha partecipato alle indagini.
Stando così le cose, è ovvio che l’inquinamento sia pesante e in effetti lo è, come dimostrano gli esiti delle indagini chimiche effettuate dall’Arpas e da Paolo Littarru, consulente del pm Pilia. Il parametro più preoccupante è il cromo esavalente, altamente tossico e cancerogeno per l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Nelle acque della pozza-sorgente del rio Surri, tombata dall’ammasso di rifiuti, la concentrazione è superiore di dieci volte rispetto ai limiti di legge. Superamenti anche per fluoruri, solfati, manganese e selenio, tossico, come il tallio. In altre parole, è emerso un quadro “inquinatorio” coerente, sostiene Littarru, in cui i veleni partiti dagli scarti interrati si sono propagati alle acque sorgive e a quelle di falda.
Come detto, Enea afferma che a Su Linnarbu gli interramenti sono andati avanti sino al 2019. Ma non è che nei dieci anni prima le cose siano andate meglio, anzi. «Tra il 2008 e il 2013, si osservano forti cambiamenti nella morfologia dell’area di studio, che fanno pensare alla prosecuzione degli sversamenti anche nel periodo 2013», precisa il laboratorio che ha condotto lo studio. Sversamenti, movimentazioni eseguite da mezzi pesanti e interramenti continui, in pratica. E nessuno si è mai accorto di nulla: né la Provincia del Sud Sardegna, che ha competenza in materia di rifiuti e autorizzazioni rilasciate a Italcementi, né il Corpo forestale attivo nel controllo del territorio.
A dirla tutta, i forestali fanno un sopralluogo a Su Linnarbu nel 2016. Ce li porta Omar Cabua, il coraggioso cittadino di Samatzai che ha dato un contributo decisivo alle indagini, peraltro vittima di aggressioni in seguito alla sua attività di denuncia dell’inquinamento ambientale. «Ma – racconta Cabua in udienza – i forestali mi hanno riso in faccia. Per loro in quei terreni non c’era niente».
RIPRISTINO AMBIENTALE «CON I RIFIUTI»
Il sequestro di Su Linnarbu non è il solo. I sigilli sono scattati anche in agro di Nuraminis, nell’ex cava Italcementi Sa Corona. Nel 2008, quando la società abbandona la concessione, è il momento del ripristino ambientale. Viene dunque presentato un progetto che è stato realizzato tra il 2015 e il 2016, ma con i rifiuti, scrivono gli inquirenti. Le operazioni di ripristino, in altre parole, sarebbe servite a realizzare una discarica non autorizzata.
Dai terreni oggetto dell’intervento sono infatti emersi mattoni refrattari, clinker, rifiuti metallici e teli di plastica. Scarti provenienti secondo l’accusa dagli scavi per la realizzazione di una vasca d’accumulo. La questione riguarda la quantità e la qualità del materiale movimentato durante i lavori interni allo stabilimento e finito a Sa Corona. Tra i documenti redatti dal direttore dei lavori, l’ingegnere Giuseppe Cataldo, finito a processo, e le stime degli inquirenti ballano “appena” 470 tonnellate. Il fatto che si trattasse di materiale frammisto a residui industriali, porta l’accusa a concludere che c’è stata una gestione non autorizzata di rifiuti.
È invece certo che le indagini a Sa Corona hanno preoccupato non poco i dirigenti Italcementi. Intercettato mentre commenta gli sviluppi degli scavi, il direttore Crescimbeni sospetta che nell’area ci sia qualche altro «punto a rischio». I timori sono palpabili. In effetti, «potrebbe esserci un problemino legato ai lavori della Vasca C», si sbilancia Putzolu. Va infine detto che questa specifica area non appare così inquinata: i terreni sono risultati a norma, ma poco più in là la situazione cambia. Nelle acque dell’invaso noto come Laghetto Valentini, l’Arpas ha trovato eccedenze di solfati, tribromometano e triclorometano, due sostanze mai emerse in nessuna area.
OCCULTARE E DIMENTICARE
Nord, sud, ovest, est: all’interno dello stabilimento Italcementi, dove la regola del seppellire e dimenticare è stata osservata in maniera ferrea, la musica non cambia. Sul lato sud-ovest, in prossimità dell’area stoccaggio rifiuti, i siti in cui sono stati interrati i residui di lavorazioni e manutenzioni sono sei. Qui gli sversamenti risalirebbero ad alcuni decenni fa. C’è poi l’area adiacente al nuovo capannone pet coke, realizzato nel 2016, a nord est.
Dal suolo sono venuti fuori inerti di rifiuti da demolizione industriale, i soliti mattoni refrattari, filtri a manica, buste di lana di vetro, sacchi, teli di plastica, un grosso pneumatico e materiale di colore nero, probabilmente pet coke. Non basta: l’escavatore della Procura porta alla luce anche otto bidoni, quattro dei quali pieni di olio combustibile, che finiscono al centro di una conversazione a dir poco surreale tra due dirigenti Italcementi.
I BIDONI? «ROBA CHE NON CREA INQUINAMENTO»
Il 24 ottobre 2019 Crescimbeni sente Ernesto Donnarumma – non indagato –, responsabile prevenzione e sicurezza dell’Italcementi a livello italiano, al quale i fusti di olio combustibile non fanno un baffo. «È tutta roba che non crea inquinamento, ma di cosa stiamo parlando?», sostiene. Al contrario, Crescimbeni appare preoccupato e a ragione: anche questi sversamenti sono finiti a processo.
Oggi il problema è come risanare questa piccola – e manco tanto – Terra dei fuochi che dallo stabilimento Italcementi si estende pressoché a tutto il territorio di Samatzai e Nuraminis, fino all’agro. Intanto c’è già una stima dei costi: per le bonifiche si parla di circa 25 milioni di euro, ma bisogna attendere il processo, sperando che non si ripeta quanto accaduto a Macchiareddu, dove un processo vero e proprio neanche c’è stato.
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