Gentilezza, il segreto (inaspettato) per aumentare la produttività ed evitare le guerre
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Agrigento - In questi tempi di feroce conflittualità – non solo a Kiev o a Gaza, ma sui social network, ai talk show, al semaforo, in fila alle poste – verrebbe quasi da pensare che la gentilezza sia un ferrovecchio ormai in disuso, passato di moda. Niente di più sbagliato. Intorno a noi c’è chi a questa aggressività, verbale e non solo, vuole sottrarsi a tutti i costi.
C’è chi sceglie la strada più difficile, che molti scambieranno forse per debolezza o codardia, ma che in realtà rappresenta la vera “forza tranquilla”. C’è chi, parafrasando una celebre frase tratta da Wonder, il romanzo per ragazzi contro il bullismo della scrittrice statunitense Raquel Jaramillo Palacio, quando gli viene data la possibilità di scegliere tra avere ragione ed essere gentile sceglie di essere gentile, perché così avrà sempre ragione.
C’è chi addirittura alla diffusione di questo messaggio sta dedicando la sua intera vita. È il caso di Natalia Re, 46 anni, agrigentina, imprenditrice nel settore dei servizi ambientali, scrittrice, mamma della 12enne Sophia e soprattutto, dallo scorso anno, presidente del Movimento italiano per la gentilezza, affiliato alla casa madre internazionale del World Kindness Movement.
«È avvenuto tutto quasi per caso», racconta a Italia che cambia. «Già da qualche anno con la mia azienda avevo deciso di accantonare la pubblicità tradizionale in favore delle campagne di responsabilità sociale». Fu proprio una di queste che la portò a conoscere il Movimento, fondato nel 2000 a Parma dai coniugi Giorgio e Marta Aiassa. «Dapprima ne diventai ambasciatrice per la Sicilia, poi l’assemblea di direttivo mi propose di assumere la presidenza. Una grande gioia ma anche una responsabilità».
Come succede in tutte le storie di questo tenore, anche il lungo impegno per il volontariato di Natalia nasconde ragioni profonde, una vicenda personale fatta di sofferenza e di coraggio. «A tredici anni soffrii di anoressia precoce, per giunta in un’epoca in cui c’era una scarsissima consapevolezza sui disturbi alimentari. Un dramma fisico, mentale e relazionale, che riuscii a superare grazie a un percorso psicoterapeutico che ha sancito la mia rinascita, la mia alfabetizzazione emotiva, tanto che continuo a non abbandonarlo. Anzi, lo consiglio a tutti: una delle nostre battaglie nazionali riguarda proprio l’educazione affettiva nelle scuole, che deve diventare parte integrante della formazione, non solo un momento sperimentale da affidare alla libera iniziativa dei presidi».
E visto che di alfabetizzazione emotiva stiamo parlando, allora cominciamo dalle basi, dall’ABC: che cos’è esattamente la gentilezza? «Sgombriamo il campo dalle confusioni», precisa Re. «Gentilezza non significa cortesia, educazione, buone maniere, non è ascetismo né misticismo. È un atto molto più profondo, di responsabilità individuale e collettiva. Parte dalla costruzione del nostro equilibrio, per poi diventare allenamento all’armonia e al rispetto. Io mi sento molto ottimista al riguardo: nonostante questo sia un momento storico di grandi derive, credo fermamente che la nostra società possa ritrovare nella gentilezza sia la bellezza che lo stimolo al cambiamento. Perché essere gentili può abbattere barriere, stereotipi, tabù, falsi miti più della forza fisica».
Guai a pensare che questa sia solo un’idea buonista, uno slogan zuccheroso o una bella intenzione: al contrario, è una pratica quotidiana e attiva, che ciascuno di noi può portare avanti. È un antidoto a tutti i conflitti – da quelli enormi della geopolitica a quelli microscopici della vita di ogni giorno, quando ci scontriamo con chi la pensa diversamente da noi per strada o dietro a uno schermo – senza volersi imporre sugli altri, ma aprendosi a loro. «Non si tratta di vocazione al martirio, cioè di rinuncia alle proprie idee o necessità, ma di accettazione della differenza, comprensione che essa può nutrire anche la nostra identità individuale».
Così magari potremo scoprire che al di sopra della smania di far prevalere il nostro punto di vista nella competizione tra i tanti “io” c’è la dimensione del “noi”, una collaborazione che conviene a tutti. «Non penso che la gentilezza sia un dono gratuito», sottolinea la presidente. «In realtà ci ritorna indietro in termini di coesione sociale, di stabilità, di riconoscimento di diritti e doveri. Anche a me, personalmente, fa bene. Mi ha permesso di frenare l’ansia e la rabbia verso le ingiustizie».
Le ricadute, anche concrete, sono sostanziali, addirittura misurabili. Natalia Re, che di lavoro fa la manager d’impresa, lo sa bene. Siamo abituati ad amministratori delegati che vedono tanto i dipendenti quanto i clienti come entità da sfruttare, per trarne semplicemente un ritorno in denaro. Invece fare uno sforzo per ascoltarli, accoglierli, soddisfarli, valorizzarli si può rivelare incredibilmente vantaggioso per il bilancio e la crescita dell’azienda.
«La gentilezza è chiaramente un valore, che diventa anche economico. A volte basta un complimento al posto di una vessazione per innescare un meccanismo fecondo, per far sentire le persone apprezzate. In un contesto in cui ci si trova a proprio agio, a livello relazionale ma anche infrastrutturale, si è più produttivi e performanti. L’esatto contrario di quanto accade in molte delle nostre strutture pubbliche, penso a scuole e ospedali, troppo spesso vetuste e respingenti».
A tal proposito il Mig ha lanciato l’Osservatorio italiano della gentilezza e dei comportamenti, che vuole calcolarne le ricadute nientemeno che sul prodotto interno lordo. L’obiettivo, ambizioso, è dimostrare che la gentilezza può diventare «un indicatore del benessere sociale del Paese, da prendere in considerazione tra le variabili che orientano le scelte dei governi». Un esempio numerico, tratto dal primo studio reso pubblico da pochi giorni?
I maltrattamenti sui minori costano ogni anno 340 milioni di euro direttamente tra ospedalizzazione, cure mentali, welfare, affidi familiari e interventi di polizia e giustizia e addirittura oltre 12 miliardi indirettamente per educazione speciale, cura della salute da adulti, criminalità giovanile e non, e perdite di produttività sociale. Parallelamente, l’osservatorio pubblica ogni mese anche «un monitoraggio condotto su Google attraverso l’intelligenza artificiale su alcune parole chiave, per comprendere cosa accade in rete. Abbiamo scoperto che l’impatto della gentilezza è particolarmente forte su Instagram, più che sulle altre piattaforme».
In effetti il mondo virtuale, ancor più di quello reale, sembra avere molto da imparare al riguardo. Sulle reti sociali volano espressioni taglienti ad altezza d’uomo, non solo quando si dibatte di temi delicati come quelli politici, ideologici, religiosi, ma spesso anche sull’effimera polemicuccia del giorno, dal vincitore dell’ultimo Sanremo alla moviola calcistica. Natalia, purtroppo, lo ha sperimentato sulla sua pelle.
Nel novembre scorso suo padre Alberto si è sparato un colpo di pistola all’età di 78 anni, lasciando dietro di sé una lettera in cui urlava tutto il suo dolore per l’ondata di critiche che lo aveva travolto dopo un evento da lui organizzato. Su questo episodio, rivela la figlia, «è stata aperta un’indagine con l’ipotesi di istigazione al suicidio».
Un altro vissuto tragico, da cui Re ha tratto l’ennesima lezione preziosa sul potenziale distruttivo – o, al contrario, costruttivo – delle parole che pronunciamo, rafforzando ulteriormente la sua vocazione di condividerla con gli altri. Basta un piccolo consiglio, che ciascuno di noi può provare a mettere in pratica, ogni volta in cui la rabbia sta per spingerci a rispondere male a qualcuno. «Quando siamo assordati dal rumore dei dibattiti conformistici e inconcludenti, dalle disordinate contestazioni, fermiamoci un attimo.
Di fronte a un momento di ostilità o di delusione, prendiamoci un momento di riflessione, prima di parlare o di agire. Scegliamo quei termini che possono ferire noi e il nostro interlocutore il meno possibile. Può sembrare banale, ma non lo è. Usiamo la gentilezza per stupire anche chi si approccia a noi con arroganza. Pensiamo al fatto che chi ci sta davanti, come chiunque, ha bisogno di essere riconosciuto, curato, coccolato. Recuperiamo il sorriso, che ci pone immediatamente in una condizione di empatia nei confronti dell’altro. Se poi riusciamo anche a porgergli la mano, avremo fatto un altro passo nella costruzione di una società più gentile».
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