Educational.city: ecologia dei media e didattica open source
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Pescara, Abruzzo - Educational.city è un’iniziativa che ha coinvolto centinaia di scuole pubbliche fra l’Italia e la Francia, partendo dall’Abruzzo. Educational.city incarna un approccio ecologico alla progettazione dei media e della didattica, basato su due ingredienti fondamentali: l’amore per la pubblica istruzione, nella convinzione che sia il cuore del sistema democratico, e la profonda consapevolezza che le tecnologie non sono neutrali, ma scelte politiche di cui le nostre democrazie devono farsi carico.
Ne parliamo col fondatore, Stefano Colarelli. Scopriremo insieme a lui come e perché Educational.city riesce a radicarsi nei territori con una sorprendente continuità, promuovendo l’appropriazione di tecnologie aperte e accessibili da parte della comunità educante e un impianto formativo che rende docenti e studenti i protagonisti di una storia tecnologica tutta da scrivere.
Sperimentatore, informatico, umanista digitale: hai dedicato alla scuola pubblica passioni e competenze. Perché?
Il mio impegno nell’istruzione pubblica nasce da una profonda convinzione, sostenuta dalla Costituzione: l’istruzione è centrale per la cura e lo sviluppo individuale e sociale. Una centralità oggi fragile. Pensa alle tecnologie digitali, che introducono nuovi modi di apprendere e insegnare all’interno di piattaforme non necessariamente progettate per l’istruzione. O alle ricerche che mostrano il deterioramento del valore sociale attribuito alla scuola nel contrastare le diseguaglianze.
Se la scuola è al centro del dibattito politico e culturale, soffre di un amore insufficiente. Lo vedo nel rapporto con la politica, nella narrazione mediatica e persino tra genitori. Ma anche negli ecosistemi dell’innovazione che tocco professionalmente. Troppo spesso i progetti esterni sono brevi infatuazioni o relazioni di convenienza transitorie, non impegni duraturi.
Come democratico, sento l’impellente necessità di dare amore all’istruzione pubblica, essere presente e incoraggiare il maggior numero di progettisti e pensatori a fare lo stesso. La risposta più diretta e sincera alla tua domanda è questa. Chi sostiene che la scuola dell’obbligo debba limitarsi all’insegnamento di italiano e matematica, dimentica che il sistema educativo è un arbitro culturale con il potere politico di valorizzare certe conoscenze a discapito di altre. E che l’educazione tecnologica è oggi un requisito di democrazia.
Alternanza scuola-lavoro, fondi PNRR: che effetti ha tutto questo sull’ecosistema-scuola?
La scuola è attualmente è un terreno di conquista da parte di aziende che vendono soluzioni tecnologiche spesso pensate senza una progettualità didattica. I casi di prodotti acquistati, abbandonati o sottoutilizzati sono tantissimi perché non supportano percorsi progettati con e per la comunità educante. Non è la didattica a guidare l’acquisto, troppo spesso avviene il contrario. La conseguenza più banale è che si perdano risorse e opportunità, con fondi pubblici. Quella più pericolosa è che la tecnologia a scuola sia vista come inutile o non aderente alle esigenze didattiche. Al tempo stesso le scuole sono bombardate da avvisi pubblici per l’acquisto di strumentazione: è un circolo vizioso.
Il PNRR è un esempio perfetto: gli istituti stanno ricevendo fondi da spendere in tempi così stretti che impediscono lo sviluppo di progettualità didattiche o che non danno premialità a tecnologie o infrastrutture aperte. Durante la pandemia il governo italiano ha persino promosso l’uso di infrastrutture di e-learning GAFAM – in particolare Google e Microsoft –, rispetto a soluzioni aperte che permettono autonomia, appropriazione e tutela dei dati, nonché controllo e sviluppo di competenze reali su di essi.
È un fatto grave di cui si parla poco, le conseguenze sono sottovalutate. Per questo come tecnologo porto nelle scuole un approccio politico. Essere cittadini significa essere anche cittadini digitali, dobbiamo assumerci la responsabilità di fare educazione sul “colore” delle tecnologie, che non sono neutrali tantomeno grigie.
Nel tuo metodo usi tecnologie aperte per costruire un’ecologia dei media e una “didattica open source”. In che cosa consiste?
Educational.City declina il concetto di apertura in più dimensioni. Il primo livello è sviluppare tecnologie e strumenti rilasciati con licenze aperte. Significa evitare che a scuola si usino soluzioni chiuse e opache – le cosiddette black box –, favorendo maggiore comprensione e controllo. La scuola deve essere un laboratorio critico dove i cittadini di domani possono esplorare in profondità le tecnologie che dominano la nostra epoca, non ti pare?
Il secondo livello è la condivisione libera di risorse, metodologie e pratiche didattiche, sia in presenza che digitalmente, permettendo ad altri di adottare, adattare e riutilizzare il nostro materiale nel rispetto della proprietà intellettuale. Questo abbassa le barriere all’ingresso per le attività didattiche, promuovendo l’idea che copiare è bello: innovazioni e scoperte tecnico-scientifiche hanno una natura cumulativa e collettiva, in netto contrasto con il mito dell’inventore solitario.
Il terzo è la progettazione di percorsi educativi open-by-design facilmente replicabili o adattabili da altri, pensati per integrare il coinvolgimento di agenti esterni. Realizzare processi che costitutivamente accolgano e curino la partecipazione è l’antidoto migliore al disimpegno di progettisti, artisti e intellettuali nella scuola pubblica. La metodologia abbraccia la condivisione dei risultati e un forte legame fra territorio e comunità locale, seguendo i principi service learning.
Da Pesaro a Nizza, hai lavorato con moltissime scuole e i tuoi progetti riescono ad andare avanti per anni, anche senza di te: cosa garantisce un risultato del genere?
Radicamento nella comunità, empowerment degli insegnanti, progettazione ecologica sono gli ingredienti principali. L’approccio si è evoluto nel tempo. Da attività didattiche dirette agli studenti siamo passati a un focus sulla formazione dei formatori. Questo cambiamento ha risposto alla necessità di evitare la dipendenza dalle competenze esterne, garantendo continuità al progetto e rendendolo adattabile e organico rispetto alle esigenze della specifica comunità educante.
Hi-Storia, la prima iniziativa di Educational.City, coinvolge circa quaranta istituti fondendo educazione STEM e valorizzazione del patrimonio culturale. Il progetto è attivo da quasi dieci anni in alcuni istituti. La formazione include la creazione di dispositivi tattili 3D, ma la chiave del successo è il legame sentimentale con il patrimonio culturale, non il mero sviluppo di competenze tecniche. L’Istituto Papa Giovanni XXIII di Savigliano, sotto la guida della docente di tecnologia Annalisa Catalano, ha sviluppato il suo quinto dispositivo: è un esempio di autonomia figlio del protagonismo della comunità educante.
Altro caso sono i progetti con sede a Nizza. Qui i principali agenti di cambiamento sono stati esogeni all’istituto scolastico: il museo archeologico e il Coalcit, associazione di promozione di lingua e cultura italiana. Quest’ultimo ha curato per anni le attività che hanno portato dentro la collezione museale prodotti divulgativi realizzati dagli studenti francesi.
Cosa ti auguri per il futuro del progetto e cosa per il futuro della scuola?
Aspiro a un coinvolgimento più profondo e strutturato della comunità educante e ho due sogni nel cassetto. Il primo riguarda l’editoria scolastica. Finora ho collaborato a volumi che propongono approcci didattici per intrecciare STEM e umanesimo; vorrei andare oltre e lavorare a manuali scolastici che affrontino il processo e la metodologia nella sua interezza. Significa raggiungere docenti e studenti direttamente sul banco di scuola, superare i limiti della formazione in aula e assicurare che la metodologia possa essere replicata e adattata, riducendo la supervisione esterna. Il secondo è lo sviluppo di una piattaforma open-source per il service learning, progettata per rafforzare i legami comunitari e territoriali attraverso un approccio che fonde formazione digitale e interazione umana diretta.
L’augurio per la scuola è che ritrovi un ruolo centrale nella comunità, liberandosi da narrazioni che la riducono a istituzione da salvare o biasimare. Sogno una scuola sconfinata, sostenuta da un impegno collettivo che superi i limiti delle sole istituzioni educative. La responsabilità dell’educazione chiama a raccolta tutta la comunità. Non possiamo lasciare tutto sulle spalle della scuola. Possiamo trasformarla nel nodo focale, pensante e abilitante di un rinnovato ecosistema educativo.
Questo articolo fa parte di una serie di approfondimenti frutto della collaborazione fra Hangar Piemonte e Italia Che Cambia che ha lo scopo di raccontare la trasformazione culturale che stanno mettendo in atto persone, organizzazioni e intere comunità intorno a noi.
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