Dietro le linee dei call center: tra testimonianze, lotte e consapevolezze collettive
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Cagliari - Il mondo deve sapere, romanzo tragicomico di una telefonista precaria di Michela Murgia esce nel 2006. Oggi, nel 2024 – quasi vent’anni dopo – il mondo ancora non sa, o finge di non sapere. Stiamo parlando della realtà dei call center. Ne esistono di vari tipi – inbound, outbound – ma sono tutti accomunati da alcuni fattori: due interlocutori che parlano attraverso un telefono. Perché come ricordava Murgia, è importante parlare di call center? Fra le tante motivazioni, perché scorrendo nei motori di ricerca lavoro si può notare che è un settore in cui c’è tanta richiesta.
La prima domanda che sorge è il perché c’è tanta richiesta; in secondo luogo, la questione che si vuole porre è che tipologia di risposta tale offerta possa offrire a chi si destreggia alla ricerca di un’occupazione. Abbiamo raccolto due testimonianze di due persone che hanno lavorato per almeno sei anni nel settore, per poi discuterne con Andrea Angius, segretario regionale UILCom Sardegna. Dalle testimonianze, seppur provenienti da realtà differenti, emerge una realtà omogenea: precarietà, alienazione, sfruttamento, ricatto occupazionale, motivo per cui le persone intervistate hanno scelto di raccontare il proprio vissuto in anonimato.
LE DUE TESTIMONIANZE DAI CALL CENTER
Il racconto che emerge è simile. Lara (nome di fantasia) racconta di aver scelto di lavorare in un call center «per necessità: essendo una studente fuori sede con nessuna esperienza lavorativa quello nel call center era un lavoro accessibile, che mi permetteva di rientrare nelle spese». Marco (nome di fantasia) spiega invece che aveva «appena terminato un periodo di lavoro nel sociale e nell’attesa della richiamata ho iniziato a lavorare in quel settore». Le due persone, assunte in aziende che si trovano nel cagliaritano, descrivono modalità di lavoro comuni, e paghe inadeguate.
«Il mio lavoro nel call center consisteva nel chiamare a cottimo per 6/8 ore, dal lunedì al sabato per 420/450 euro al mese, e al raggiungimento di un certo numero di contratti erano previste delle provvigioni – spiega Lara – se non viene raggiunto un certo obiettivo venivano però pagate solo le ore di lavoro svolto 2,90 euro all’ora. Dopo non troppo tempo ho scoperto che non mi venivano versati i contributi: quella che mi veniva fatta era una busta paga fittizia; da lì scelsi di andarmene». «Nonostante la paga molto bassa e un contratto dal valore di cartastraccia, a lavoro si sta bene» racconta invece Marco.
«Era un bel gruppo, ci veniva propinato lo slogan della grande famiglia, ma non compresi subito che là dentro si è visti come una macchina: quando produci vieni elogiato, quando smetti vieni ignorato; da un momento all’altro puoi saltare la porta, ti viene insinuato il senso di colpa perché non stai dando il tuo contributo alla grande famiglia che ti ha sempre supportato. Essendo un lavoro di passaggio cercavo di fare del mio meglio e una volta fuori cercavo di staccarmi da quell’ambiente, ma dopo anni era diventato un ambiente estremamente tossico, non vedevo professionalità da parte di chi pretendeva da me una paga di 2,35 euro l’ora circa. Avevo la nausea solo al pensiero di recarmi a lavoro».
IL PARERE DEL SINDACATO
Condizioni di lavoro precarie, paghe inadeguate, insoddisfazione. Il numero di chi tra lavoratori e lavoratrici dei call center si rivolge ai sindacati è alto. «Le motivazioni sono le più disparate – spiega Andrea Angius –, si parte dalle problematiche legate alla conciliazione dei tempi vita/lavoro passando per questioni di carattere economico come il riconoscimento dei livelli o delle ore di straordinario, fino ad arrivare a questioni che, in qualche caso, rientrano nel mobbing. Ovviamente, anche le casistiche sono direttamente correlate alla realtà lavorativa alla quale la lavoratrice o il lavoratore appartiene».
Dalle testimonianze emerge come la fascia d’età di chi lavora nel settore sia compresa tra i 30 e i 40 anni. In merito, Angius spiega come «il settore rappresentava fino a circa un decennio fa una realtà rivolta ai giovani. Le realtà lavorative che si distinguono per serietà e capacità accolgono al loro interno dipendenti con anzianità aziendale anche ventennale. A queste realtà si accompagnano le altre, dove il turnover è elevato e dove la ricerca di giovani è pressoché costante. Tutto ciò fa si che il mondo dei Customer in Sardegna, comprende dipendenti di tutte le età, con una media che si aggira intorno ai 30/35 enni». Davanti alla possibilità di precariato, quali sono gli strumenti?
Per Angius «la consapevolezza personale dei propri diritti e dei propri doveri. Il Sindacato in questo caso specifico deve giocare un ruolo importante». Tuttavia, siamo costretti a fare i conti con un altro fattore: le persone intervistate hanno scelto l’anonimato temendo di avere delle ripercussioni lavorative o personali. «Qua il grande problema sono tutti quei dipendenti che non hanno contratti stabili, talvolta sono facilmente ricattabili e quindi le persone tendono a non sentirsi nemmeno libere di poter esprimere qualsiasi dissenso e, ancor peggio, qualsiasi tipo di libera idea sulla propria realtà lavorativa».
CONSAPEVOLEZZA E APPROCCI COMUNITARI
Michela Murgia termina il suo romanzo con una metafora per descrivere il suo stato d’animo nel consegnare le dimissioni: “Quando hai bevuto tanta di quell’acqua prima di un’ecografia pelvica, ma tanta di quell’acqua …che sai che anche volendo non ce ne starà più neanche una goccia”. Da quanto emerge dalle testimonianze, è molto frequente dentro i call center la vescica sia sul punto di scoppiare, che dietro l’angolo ci sia un bornout – letteralmente “bruciato, esaurito”, a causa di un costante stress lavorativo a prescindere dal settore.
Uno strumento a disposizione dei lavoratori e delle lavoratrici del settore è la consapevolezza, anche di lavorare in un settore che – come riporta Angius – «attualmente è in fortissima difficoltà per una serie di ragioni, fra loro la delocalizzazione del lavoro verso l’estero, in particolare est Europa, dove il lavoro costa meno ed i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori sono decisamente inferiori rispetto a quelli normati dalle leggi e dai contratti di lavoro del nostro Paese; oppure nella presenza di un numero elevato di contratti di lavoro decisamente sacrificanti per i dipendenti ma a vantaggio delle aziende. Ci sono tuttavia esempi di realtà vivibili: nel nostro territorio alcune realtà di Customer si sono inserite diventando importanti poli occupazionali».
Dunque, la soluzione a quella “vescica che sta per scoppiare” potrebbe essere la consapevolezza di essere in tanti, di non essere soli perlomeno, di poter essere rappresentati e tutelati riconoscendosi in una classe di lavoratori che si identifica come tale e che trova nell’unione e nell’approccio comunitario una risposta anche nelle problematiche più sistemiche.
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